Il titolo del nuovo libro di Marco Belpoliti, L'età dell'estremismo (Guanda, pp. 296, euro 18) deriva dal titolo originale del saggio di Eric J. Hobsbawm, Ages of Extremes (1994) che in italiano venne tradotto col fortunato titolo Il secolo breve, ormai passato in proverbio. Il secolo che abbrevia il Novecento va, secondo Hobsbawm, dal 1914 (scoppio della prima Guerra mondiale) al 1992, quando l'Urss si frantumò. Il periodo preso in considerazione da Belpoliti è ancora più breve, va dal 1989 al 2012 ed è fitto di eventi politici (la caduta del Muro di Berlino, l'attentato alle Torri gemelle, le guerre mediorientali...) e artistici (l'arcipelago delle avanguardie).L'età degli estremi di Hobsbawm, spiega Belpoliti, potrebbe essere resa meglio con «età dell'eccesso», come suggeriva lo psicoanalista Adam Phillips, perché l'estremo si spinge fino al limite, mentre l'eccesso va oltre il limite. Peraltro Belpoliti ha preferito intitolare il suo libro L'età degli estremismi, secondo un'espressione a cui Susan Sontag ha conferito un significato più vasto. Siamo comunque sempre al limite, un po' più in qua, un po' più in là.Già l'aver convocato in così poche righe autorità come Hobsbawm, Phillips, Sontag, fa capire che Belpoliti ha letto tutto ed è al corrente di tutto. Basta dare un'occhiata alla Nota bibliografica del volume per restare terrorizzati: l'autore ha intelligentemente evitato di appesantire con note i vari capitoli, e ha radunato nelle ultime pagine le fonti bibliografiche di ciascuno, spaziando dalla letteratura all'estetica, alla storia dell'arte, alla politica, alla sociologia, alla filosofia, al giornalismo di costume.Il lettore rimane un po' stordito come quando accede a Wikipedia: strumento utilissimo e che usiamo tutti noi che scriviamo, ma che dà sempre una vertigine d'incertezza. In Wikipedia troviamo tutto e subito, ma resta il dubbio sulla veridicità delle singole voci, come peraltro avviene per ogni enciclopedia; in più con l'incertezza di sapere che in ogni momento qualcuno può aggiungere un particolare, modificare un riferimento, e magari lo sta facendo proprio adesso. La bibliografia di Belpoliti è fatta di libri che egli certamente ha letto, ma è proprio la vastità del numero a non rendere riconoscibile il filo conduttore della ricerca e dell'analisi, e infatti l'autore lealmente ammette di non fornire risposte ultimative ai quesiti e ai problemi che l'età dell'estremismo solleva, offrendo però «un romanzo di idee e di fatti estetici» altamente suggestivo.Il saggio di Belpoliti comprende una cinquantina di capitoli, perlopiù brevi, una ventina dei quali era già stata inclusa nell'einaudiano volume Crolli; alcuni altri erano già apparsi in giornali e riviste, e sono stati qui rielaborati accanto ad altri nuovi. La lettura è sempre istruttiva. Si prenda, per esempio, la questione del kitsch. Belpoliti cita la definizione che ne diede Hermann Broch nel 1933: «L'essenza del kitsch consiste nello scambio della categoria etica con la categoria estetica: impone all'artista non un "buon" lavoro, ma un "bel" lavoro; ciò che importa è il bell'effetto». Ma un "bel" lavoro nelle intenzioni di chi lo fa, non nel risultato, dato che kitsch è universalmente sinonimo di cattivo gusto. Negli anni '50, dopo Hitler, Broch aggiustò il tiro collegando e malvagità: «Il kitsch è il male nel sistema di valori dell'arte». E sul rapporto tra avanguardia e kitsch Clement Greenberg, già nel 1939, aveva concluso che l'avanguardia imita e innova i procedimenti dell'arte, mentre il kitsch ne imita gli effetti. Sarà poi di Milan Kundera, nel 1985, la parola al momento definitiva: «Il kitsch elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell'esistenza umana è essenzialmente inaccettabile», trasformando il sentimento in sentimentalismo, l'estetico in estetismo. Altri, ripartendo da Kundera, spiegheranno, approfondiranno, contraddiranno.Il "romanzo di idee" di Belpoliti è una luce che fa percepire lo spessore del buio che la include. Non è un servizio da poco.
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