Ogni giorno, ogni sera, ogni notte Charles Baudelaire cammina per le strade della città: Parigi cambia, rovine, erbacce... Nel ricordo, scrivendo i versi, il poeta rivede di colpo un’apparizione: un cigno, fuggito da un vicino serraglio, uscendo dalla gabbia. Raspa l’arido selciato con i piedi palmati, trascinando le bianche piume sul suolo sporco e scabro, spalanca il becco per abbeverarsi a un arido rigagnolo, mentre il bianco piumaggio si inzacchera di fango che sta asciugando, e polvere, e nel cuore ha infisso il lago in cui viveva felice… Baudelaire comprende la lingua dell’alato, che diceva: «Quando cadrai, pioggia? Quando tuonerai, folgore?». E mentre gridava questo lamento disperato il suo collo si levava inutilmente verso quel cielo dove aveva volato libero, bellezza e nobiltà umiliate nel fango.
E di colpo il destino di quel grande esule che ricorda i cieli e gli specchi azzurri dei laghi lì, su una strada fangosa, svela il destino universale della grande anima imprigionata.
E pensa ad Andromaca, la sposa del nobile Ettore fatta schiava da Pirro, rivede la donna nera smagrita e tisica, che cerca scalpicciando nel fango, con l’occhio attonito, dietro l’immenso muro di nebbia, le sagome assenti dell’albero di cocco dell’Africa Superba. E scrive per ogni anima offesa e umiliata, per ogni esule.
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