Nel discorso di fine anno, in coerenza con uno stile che gli italiani (e non solo) hanno dimostrato largamente di apprezzare, Sergio Mattarella si è ben guardato dal lasciare le sue personali consegne programmatiche al successore, quasi a volerlo condizionare. Ha richiamato però con estrema chiarezza le esigenze che «ciascun Presidente della Repubblica» deve avvertire in quanto radicate nella Costituzione, indipendentemente dalla personalità di chi ricopre “pro-tempore” l'alto incarico. Ne ha indicate in particolare due: «spogliarsi di ogni precedente appartenenza» per farsi carico «esclusivamente» del bene comune e «salvaguardare ruolo, poteri e prerogative dell'istituzione che riceve dal suo predecessore e che – esercitandoli pienamente fino all'ultimo giorno del suo mandato – deve trasmettere integri al suo successore».
Facciamo un salto indietro di quasi settant'anni. È il 12 gennaio del 1954 e Luigi Einaudi, il primo Presidente eletto dal Parlamento, è impegnato a difendere il suo ruolo nella formazione dell'esecutivo dopo le dimissioni del governo Pella. In occasione dell'incontro con i capigruppo della Dc (uno dei due era Aldo Moro) legge una nota in cui ha fissato questi concetti: «Dovere del Presidente della Repubblica evitare si pongano precedenti grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore, immuni da ogni incrinatura, le facoltà che la Costituzione gli attribuisce». Mattarella aveva già citato queste parole nel discorso tenuto il 12 maggio 2018 a Dogliani (dove Einaudi è sepolto) nell'anniversario del giuramento dell'illustre predecessore. E ne ha richiamato fedelmente la sostanza nell'ultimo discorso agli italiani del settennato, a conferma dell'importanza attribuita a questo snodo nel garantire la continuità e il rispetto del dettato costituzionale nel passaggio tra una presidenza e l'altra.
Non si tratta di astratte questioni accademiche. Quando Mattarella parla a Dogliani, la politica è immersa nelle confuse e schizofreniche trattative per il nuovo governo che avranno infine uno sbocco concreto (l'esecutivo giallo-verde) solo in virtù della capacità maieutica del Presidente. In quei momenti il Capo dello Stato si troverà davanti persino una grottesca minaccia di impeachment proprio per aver fatto valere le sue prerogative nella nomina dei ministri, opponendosi all'assegnazione del cruciale dicastero dell'Economia a un personaggio notoriamente sostenitore di posizioni anti-europeiste. Vengono i brividi, tenuto conto di quel che sarebbe avvenuto dopo, nel pensare alla situazione in cui si sarebbe trovata l'Italia in seguito a quella che inevitabilmente sarebbe apparsa come una dichiarazione di guerra politica alla Ue. Si può ben dire che in quel frangente decisivo il Paese sia stato salvato dalla fermezza costituzionale del Presidente. Lo stesso che all'inizio di quest'anno, di fronte all'ennesimo stallo tra i partiti, si è avvalso dei poteri che la Costituzione gli conferisce e ha affidato di sua iniziativa l'incarico a Mario Draghi, assicurando agli italiani un governo all'altezza delle sfide che interpellavano e ancora oggi interpellano le responsabilità della politica.
Le incognite di questa fase sono tante e non si può dare nulla per scontato. Un punto però è certo: al termine del settennato il ruolo del Capo dello Stato è «integro» e «immune da ogni incrinatura».
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