E' sera. Durante uno spettacolo comico, dentro a un piccolo teatro di periferia, un faro va in cortocircuito. Una scintilla si posa sul panno di una quinta, che si incendia immediatamente. Un attore, truccato e vestito in modo buffo, corre in strada. È disperato, urla che tutta la voce che ha. «Correte, aiuto, il teatro sta bruciando!». Molte persone lo applaudono, pensando sia una interpretazione di strada. «Bravo, reciti benissimo!». Il teatro va a fuoco, con le persone dentro. Muoiono tutti. Questa scena di fantasia potrebbe succedere davvero oggi.
Perché guardiamo prima i vestiti delle persone? Giudichiamo d'impatto, ci facciamo traviare da quello che vediamo in superficie. Nell'uomo, da sempre, c'è la malsana tendenza a giudicare. Non giudichiamo solo gli altri, ma spesso anche noi stessi, e lo facciamo con grande severità. Quante volte ci capita di vedere solo i nostri difetti e di evidenziare il nostro tallone d'Achille? Diventa un vero dòmino: invece di alleggerire alcuni pensieri e situazioni, le ingigantiamo. Il giudizio compulsivo è una patologia che ci portiamo dietro da sempre. Viviamo in una società dove, sin dalla nostra nascita, siamo abituati al giudizio, alla critica, alla condanna. Questo crea in noi una (spesso incosciente) rigidità mentale, con una conseguenza preoccupante: diventiamo privi di compassione. Parola – peraltro – oggi abusata nel suo senso più dispregiativo: «Quello mi fa proprio compassione, guarda cosa fa!». Non è compassione, questa, ma un altro giudizio (negativo) rispetto a qualcuno. Diventa automaticamente una forma di compiacimento, a pensarci bene. Ti reputi migliore, scambi la compassione per giudizio negativo. Quando, in realtà, il principale significato di questa parola sarebbe «sentimento di pietà verso chi è infelice, verso i suoi dolori, le sue disgrazie, i suoi difetti; partecipazione alle sofferenze altrui» (Treccani). Partecipazione alle sofferenze altrui, non elevazione egocentrica del nostro io rispetto a una infelicità. Buon Natale.
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