Quando dobbiamo definire un collega di lavoro o un professionista, curiosamente usiamo di rado l'aggettivo "competente". Lo qualifichiamo di solito per il suo livello di intelligenza, per il suo grado di simpatia, magari per il suo aspetto fisico. Ma quasi mai per la sua competenza o incompetenza. Non è un caso. È il frutto avvelenato di decenni di "egualitarismo" post-sessantottino, ancor oggi dominante in Italia nella stragrande maggioranza degli ambienti pubblici e perfino in una parte rilevante dei luoghi di lavoro privati, che ha limitato e persino annullato la nostra capacità di valutazione di quello che dovrebbe essere l'elemento più rilevante per giudicare il comportamento professionale di una persona. E che ha schiacciato verso il basso le carriere – in cui l'elemento dell'anzianità e quello dell'affidabilità sono nettamente più importanti, rispetto a parametri "naturali" come la produttività e la capacità d'innovazione – rendendoci nel complesso meno reattivi rispetto ai cambiamenti richiesti dall'evoluzione globale delle produzioni e delle tecnologie.
Una conferma statistica viene dal Rapporto "Getting Skills Right: Italia", appena pubblicato dall'Ocse, secondo cui il 6% dei lavoratori italiani ha competenze insufficienti per svolgere le proprie mansioni lavorative, il 18% possiede un titolo di studio inferiore a quello richiesto dalla sua professione, il 35% è impiegato in settori che non corrispondono alla propria area di studio. Tutto questo si accompagna a un grande paradosso nel quale è avvitato oggi il nostro sistema imprenditoriale, che appare spaccato a metà: da una parte c'è un gruppo (ristretto) di imprese italiane di grandi e medie dimensioni ad alta produttività, che fanno grande fatica a trovare le competenze di alto livello di cui avrebbero bisogno, dall'altra parte c'è un corpo imprenditoriale fatto di piccole e piccolissime ditte, spesso incapaci di innovare prodotti e processi, che esprimono altrettanto spesso una domanda di competenze estremamente bassa. Ciò trascina l'Italia nel suo complesso – come rileva appunto l'Ocse – in un equilibrio caratterizzato da bassa innovazione, scarsa produttività, competenze inadeguate.
Come uscire da questa trappola? Con una serie di salti culturali (non facili, per definizione): tra questi considero vitale la diffusione del virus del giusto merito in tutti gli ambiti lavorativi, sino a "sanzionare" i capi che favoriscono l'avanzamento di collaboratori privi di competenze, e legando più fortemente le retribuzioni ai risultati raggiunti. Ci deve essere spazio e dignità per tutti, ma se il futuro si gioca sulle competenze, non possiamo perdere la partita prima di iniziarla.
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