Ogni giorno dal 1 settembre scorso è andato al fiume in bicicletta, si è immerso, cercava la figlia. È il papà di Hafsa, la ragazzina di 15 anni di origini marocchine inghiottita dall'Adda a Sondrio mentre stava tentando di raggiungere una spiaggetta: forse è scivolata, la corrente l'ha travolta. Scomparsa nel nulla da più di due settimane. Alla fine lo hanno fatto desistere, per ragioni di sicurezza, ma le immagini di quel padre in mezzo all'acqua a caccia del corpo della sua piccola sono strazianti. In un video su Facebook filmato da un passante, si vede l'uomo che nuota controcorrente, scandaglia il fondo, fruga tra le rocce.
È proprio vero che noi, o almeno chi di noi ha un briciolo di cuore o di cervello, non vediamo quasi mai le cose come sono. Di solito vediamo le cose come siamo. Ci immedesimiamo nelle storie che vediamo sui giornali o in televisione. Due minuti e pensiamo: come reagirei? E se fosse capitato a me? Il fatto è che siamo inadeguati a reggere l'evento più innaturale che esista: la morte di un figlio. Che è morire in due, con uno che rimane vivo.
Da lontano invece si ammutolisce di fronte al dolore di un padre o di una madre. Ma non si può evitare di interrogarsi su quel legame di carne che non finisce quando una vita finisce. Ricresce, torna a battere in un altro modo, anche frugando disperatamente il greto di un fiume.
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