Il dolore segreto di mia madre e la luce di Agostino
domenica 8 dicembre 2024
So che la vigilia di Natale è il momento più duro per chi ha subito un lutto. Ho il ricordo delle luci di un Natale di fine anni ’60, piazza Duomo con l’albero altissimo, La Rinascente sfolgorante, il centro di Milano addobbato come per l’arrivo di un imperatore. Era il 1967 esattamente, il Sessantotto covava a Parigi, ancora non era esplosa la bomba in piazza Fontana – la strage che lacerò e concluse l’ottimismo di oltre vent’anni di pace in Italia. Di tutto questo non sapevo niente, avendo io in quel Natale nove anni. Tutto attorno a me era splendido, mentre camminavo per mano a mia madre in via Manzoni. Ma lei non guardava nemmeno le vetrine, procedeva come un automa a fare non so quale commissione. Traversava la strada, se incontravamo gli zampognari con le cornamuse. Sembrava quasi scappare, mia madre, in quella sera di Avvento. Io camminavo veloce, per starle dietro. Sapevo, ma non potevo capire fino in fondo la pena che la divorava. L’avrei capita un po’ soltanto molti anni dopo, diventando io madre. Mia sorella maggiore, non ancora quindicenne, era morta in sei mesi, dopo una lunga agonia. E quando, in ospedale, la mamma me lo aveva detto, già nell’abbracciarla l’avevo sentita “altra” da prima, irrigidita, non più totalmente lei. I suoi begli occhi erano diventati più scuri, due pozzi profondi in cui non trovavo più il sorriso che aveva accompagnato la mia infanzia. Poi, mia madre aveva apparentemente continuato a fare ciò che faceva prima, a badare alla casa, ai miei compiti. Solo certe sere questa apparenza si infrangeva e lei si chiudeva in camera, da sola. Se le andavo vicina pareva quasi non riconoscermi. Il dolore cominciava ad alienarla da sé. Ha dovuto passare molto tempo perché io iniziassi a immaginare quale strazio l’aveva investita. Solo la notte in cui il nostro primo bambino, a due mesi, caduto accidentalmente con me per strada, fu ricoverato in terapia intensiva in un ospedale: solo quella notte, passata sveglia a seguire atterrita il suo respiro, ad attendere una sentenza, intuii cosa aveva passato mia madre. Solo allora. E adesso che ho figli e nipoti, e mia madre se ne è andata da tempo, se mi avvicino a piazza Duomo in questi giorni ancora mi viene addosso una indicibile ansia: ho il marchio addosso di quello sguardo perso, dei passi veloci, della sua mano che tirava la mia, come se la gioia della festa le bruciasse, e moltiplicasse lo strazio dell’assenza di quella sua figlia perduta. Per questo, in questi giorni nella folla del centro penso a quelli che tacciono, o che sono rimasti a casa, soli col loro dolore. Cristiani magari, che confidano di ritrovare un giorno i loro cari. Ma adesso, adesso che è l’Immacolata e le città si accendono di una gioia, peraltro, di cui hanno spesso dimenticato l’origine, adesso cosa direi a mia madre, ferma davanti al muro impenetrabile di una assenza? La forma che diamo alla morte in Occidente, le bare, i cimiteri, le lapidi murate sui loculi, come per sempre, sono, trovo, altrettanti colpi di lama su chi è rimasto. Ma proprio ieri, leggendo sul Corriere della Sera il necrologio di Eugenio Borgna, il grande psichiatra morto a 94 anni pochi giorni fa, ho avuto un sussulto. Sentite: «Coloro che ci hanno lasciato non sono degli assenti, ma degli invisibili che fissano i loro occhi pieni di luce nei nostri occhi pieni di lacrime». Parole di sant’Agostino, Padre della Chiesa, grandissimo santo e filosofo. Un uomo che nelle sue Confessioni ha esplorato per primo l’interiorità dell’uomo, e le infinite stanze della nostra memoria. Conoscevo il professor Borgna, lo andavo a intervistare, e spesso mi ha parlato di Agostino, che amava molto. «Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat Veritas», mi ripeté più volte. Non cercare fuori, cerca in te stesso: la Verità, che è Dio, è nel fondo di ciascuno di noi. Mai dimenticato. Così come ora mi segnerò queste parole di Agostino, colme di speranza: quelli che ci hanno lasciato «non sono degli assenti, ma degli invisibili che fissano i loro occhi pieni di luce nei nostri pieni di lacrime». Se qualcuno l’avesse saputo dire a mia madre, in quel Natale. Se qualcuno sapesse riportare queste poche righe a chi oggi è nel dolore, magari in un biglietto scritto a mano. Come un messaggio da un santo: vero oggi come era vero allora. © riproduzione riservata
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