martedì 29 giugno 2021
Berlino, Olimpiadi 1936. Adolf Hitler in persona la incarica di esaltare con la telecamera la razza ariana. Lei, Leni Riefenstahl, ex attricetta di regime appassionata di fotografia e poi regista, ci sa fare. E fa. Ha carta bianca. Usa anche le mongolfiere per filmare dall'alto i Giochi del Fürher, e per celebrare i gesti della Germania atletica e invincibile. Centomila metri di pellicola, una troupe di 33 persone, 14 cineprese, mezzi subacquei e macchine automatiche per cogliere la prospettiva da dove nessuno aveva mai osato prima, l'uso del rallentatore e dei primi piani, due anni di montaggio. Nel '36 sono cose mai viste e mai fatte. Il film si chiama Olympia, ed è un capolavoro, anche se a braccio teso. Il cinema entra nell'Olimpiade e l'Olimpiade cambia il cinema per sempre: tecnica e propaganda, un inno al bello, al gesto atletico, al corpo umano, spesso anche nudo. La Riefenstahl fa scavare buche all'interno dello stadio per riprendere gli atleti dal basso, con il tetto delle nuvole come sfondo. Wenders arriverà cinquant'anni dopo, il cielo sopra Berlino lo inventa lei. Missione compiuta. Poi però spunta Jesse Owens, il ragazzo nero dell'Alabama che vince quattro medaglie d'oro nei Giochi della supremazia bianca. Nel salto batte Lunz Long, tedesco, biondo e molto ariano. Ma lui e Owens si abbracciano platealmente sulla pedana del lungo, diventeranno pure amici. Hitler proprio non gradisce: la sua smorfia stizzita in tribuna resta impressa per sempre nella pellicola. Senza volerlo, diventa l'immagine più beffardamente antirazzista della storia.
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