Girando per mercatini, a Natale, finalmente scoprendo qualcosa di nuovo da comprare, in particolare oggetti dell'artigianato locale, ho capito che quella è la nostra vera dimensione. In tutto. Siamo un Paese giustamente preoccupato dei frutti avvelenati di certa globalizzazione, vedi il calcio business dei fatturati straripanti, eppure abbiamo in noi l'antidoto naturale, ovvero un senso della misura che aborre il pacchiano e gli arricchiti, i primi a corrispondere al denaro già vicino allo sterco del diavolo ma in particolare simbolo di prepotenza. Quando arrivarono i cinesi e si temeva che potessero comprare tutto il calcio come se fosse l'Esquilino, fummo fortunati: all'oscuro benefattore di Berlusconi, che pagò il Milan come fosse una miniera d'oro senza avvedersi che era esaurita, potemmo opporre i Signori di Suning, garantiti da Massimo Moratti, dunque ricchissimi e solvibili nonché desiderosi di cimentarsi in una delle rare arti sfuggite al loro genio inventivo, il Gioco del Pallone. Già esistevano gli Amerikani de Roma, quelli che il calcio era più che mai una redditizia passione per il cemento. Oggetto di mille appetiti sfamati, i progetti, inesistenti le realizzazioni, come lo Stadio della Roma che unisco – nel sogno – a quello che tenni a battesimo nell'86. Mai realizzato. Certi campioni non vengono da noi perché sanno che gli toccherebbe giocare in qualche antica risaia o in terreni fatti apposta per gli infortuni. Altri perché le loro performances monetarie sarebbero rivelate al popolo e usate per ritorsioni polemiche contro “i fannulloni”, com'è successo a Napoli per allontanare Ancelotti. Gli investitori stessi – stranieri, ormai solo stranieri visto che se fossero italiani il fisco li divorerebbe – o sono santificati ancor prima di essere conosciuti, come quel signore della Roma che ha prodotto di sé un'immagine accattivante e ha fatto sapere d'esser pieno di soldi, mica chiacchiere, e ha un nome, Dan Friedkin, che sa di cinema e di sogni, la cui generosa offerta è tanto per Roma, pochissimo per Londra e per l'Inghilterra intera dove impianti sportivi in genere e stadi particolari – e nuovi di zecca – dicono di una vera industria galoppante mentre noi sembriamo figli dell'Ilva. Per fortuna ci divertiamo lo stesso perché il calcio è un gioco e anche un lavoro. Ed è in gran parte in mano a privati italiani calcisticamente competenti. E furbi. Come Lotito che, guarda caso, ha l'unica squadra che gioca davvero “all'italiana”. E guarda caso vince. Non possiamo essere un grande mercato anche perché non esiste la cultura del valore ma lo strombazzamento di qualità spesso inedite o fantasiose: i comunicatori del mercato sono acritici, entusiasti di ogni pedatore annunciato, fanno come Vincenzo Mollica fa con attori e cantanti, mentre i calciatori devono aver le carte in regola, visto quel che costano, e rivelarsi certezze o almeno sorprese. Come Lukaku. Il calcio italiano è di nicchia, per qualità, per ispirazione tecnica, per tradizione. Per sentimento. Mi è piaciuto sentir rievocare prima di Bologna-Fiorentina da Rocco Commisso, l'imprenditore calabrese di New York, l'amicizia cinquantennale della sua famiglia con quella di Joey Saputo, il siculo canadese presidente del Bologna il cui padre forniva mozzarelle al fratello di Rocco, pizzaiolo nella Grande Mela. Questi sono gli Zii d'America. Questi siamo noi. Vuoi mettere con Elliott? Con Vuitton?
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