giovedì 21 luglio 2016
Francamente, ora che i talk show suonano il trombone della retorica sui migranti, senza averne titolo alcuno, per avere un'idea dell'essenzialità penso volentieri ai miei ricordi infantili deamicisiani. Il maglione verde, fatto ai ferri da mia madre, raccolse il complimento che sembravo un montanaro venuto da chissà dove. Il cappotto per Natale, vero evento epocale, dovendo servire per un numero sterminato di anni, venne acquistato di una taglia tale da arrivarmi quasi ai piedi. Morivo dalla vergogna per quel dono storico. In casa, a proposito di risparmi, si parlava dei "dané de la fever", piccola somma per l'emergenza improvvisa. Mi veniva detto che ero un bambino fortunato e questo lo credo ancora oggi. Ai tempi dei primi televisori, vedevo qualcosa, arrampicandomi alla finestra di un'osteria. L'audio non lo sentivo ma i dialoghi li inventavo da me. Forse il ricordo più centrale fu il riscaldamento della casa, che era della ditta per cui lavorava mio padre. Non dovevamo rubare il riscaldamento. I tredici gradi diurni, diventavano diciassette la sera. Ce l'ho fatta per darwiniana selezione naturale. Per il futuro non temo certo la glaciazione, da buon orso, ma l'incalzare dell'equatore con la sua desertificazione, quello sì. Tra cammello e plantigrado, è con quest'ultimo che io sto.
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