Non c'è una data che ambienti lo svolgimento del nuovo romanzo di Ida Boni, La vita altrove (Albatros, pp. 138, euro 13,90), ma si capisce che siamo negli anni '50, in una Firenze postbellica deliziosamente provinciale e così aristocratica da considerare ovvia, ma non meno stupefacente, la propria bellezza. Andrea Venturini è un facoltoso non ancora cinquantenne che ha scoperto la passione per il teatro, non da spettatore ma da autore teatrale. Per scrivere il suo testo, però, ha bisogno di confrontarsi con giovani studentesse, che recluta attraverso una ripetuta inserzione sul giornale: «Professionista cerca studentessa per collaborazione letteraria. Si prega precisare curriculum studi». Si capirà poi, dagli sguardi dei frequentatori del lussuoso bar in cui il Venturini entra in compagnia di sempre nuove bellezze, che la collaborazione non è esclusivamente letteraria.All'inserzione risponde anche Anna, una studentessa non capita dalla rissosa famiglia piccolo borghese, fidanzata con Marco, studente squattrinato, da sei mesi a Düsseldorf con una borsa di studio. Anna entra così in contatto con un mondo di agiata ricchezza nella bella casa di Andrea, accudito da un fedele servitore e affezionato a un simpatico cane; il testo teatrale a cui lavorano a quattro mani è davvero interessante, nella linea dello sperimentalismo di quegli anni.La ragazza (e, prima di lei, il lettore) viene anche a sapere che Andrea ha una moglie, Myriam, che in una costosa clinica sta sprofondando in una depressione di cui l'egoismo del marito non è certo causa secondaria.Quando Andrea conduce Anna a una sfarzosa festa in villa, la ragazza non solo scopre un mondo inaspettato, ma anche che i sentimenti di Andrea nei suoi confronti sono sorprendentemente ricambiati. Ne è sconvolta, ma capisce che quella relazione è senza sbocchi: «Non sono capace di vivere in mezzo ai sotterfugi, alle bugie», dice ad Andrea nell'ultima telefonata.Ma quell'esperienza l'ha profondamente segnata. Anche l'esame, ed era il penultimo, è andato male (a quel tempo i professori segnavano «quindici» sul libretto), ma non è questo il punto. Si acuisce in Anna il senso di inappartenenza, e anche il rapporto con Marco ne resta incrinato: «Le sembrò di essere nuovamente assalita da una sua antica paura, di essere sempre troppo distante dagli altri e dalle cose, di non saper veramente vivere ma solo riflettere la vita». E la nevicata fuori stagione che conclude il racconto non è purificatrice: i fiocchi di neve sulla spalletta del fiume erano pronti «a mutare il loro inconsistente candore in una vischiosità che niente avrebbe più posseduto della propria primitiva natura».La scrittura di Ida Boni è quietamente maestosa, come un fiume che da un momento all'altro potrebbe esondare da argini troppo stretti. Anche un romanzo relativamente breve come questo si configge nella memoria del lettore come una saga di letteratura russa o mitteleuropea. In Italia stiamo riscoprendo i romanzi di Màrai, di Zweig, della sublime Némirovsky che ci fanno capire perché, dai decenni in cui sono ambientati, siamo giunto ai nostri dubbi, alle nostre insicurezze, e scopriamo che le nostre emozioni sono già scritte in quelle pagine.I romanzi al passato prossimo di Ida Boni, Modo lidio (1986), Senza lasciare traccia (1994), Tre donne (1998), Ma è tardi, sempre più tardi (2004), Quel freddissimo inverno (2009), sono nostri contemporanei. L'augurio è che i «grandi» editori e il grande pubblico non tardino a scoprirli come è accaduto con Màrai, Zweig, Némirovsky. Anche se «tardi» è un avverbio senza senso per la letteratura che vive nell'«adesso» della storia e dell'oltretempo.
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