Poeta eccentrico quant'altri mai - nel senso che il mobilissimo centro del suo dire è sempre altrove - Davide Brullo torna a sorprendere con Abbecedario antartico (Raffaelli , pagine 48, euro 12,00). Poesia al limite della glossolalia: «In quattro celebrati dall'elmo / chiesero pietà alla creatura / a venire - i loro volti sciamarono / per anni come cuspidi di marmo / da cui si traggono cronologie». Che vuol dire? Da quali cuspidi di marmo si traggono cronologie? Domande sbagliate, perché la poesia va sempre presa in senso (e non senso) letterale, fatta com'è di parole che rimandano a un'aura per gli anfratti di memoria nel lettore (nel caso, soprattutto per chi ha dimestichezza con i precedenti poetici dell'autore, un certo arcaismo araldico alluso dall'"elmo" e dalle "cronologie"). Peraltro, non è solo "antartico" l'Abbecedario (se di abbecedario si tratta) che sta nel titolo: c'è molto "artico" («ogni verbo nell'Artico», «sul diario degli Artici», «cuce l'Artico al Novecento», «l'Artico è un antefatto»), e non mancano le «perplessità del Volga», oltre al «libro del Nord», «come se il Nord fosse un erbario». Brullo, da sempre, coltiva un suo bestiario e anche qui non si tira indietro: «La bara giunta dalla gola di un ghepardo»; «una ricorrenza tra aironi e gigli»; più volte sono evocate le sule (uccelli marini dalle zampe azzurre); «il gusto progredito tra le orche»; «teste di tigre in fiamme»; «la rettitudine prevalente degli orsi mentre le pernici sfondano il mattino»; «era convinta che le costellazioni germogliassero al caldo nelle viscere del giaguaro»; «la pioggia tortura di gioia le volpi»; «in un'alba i lupi consolidarono il cerchio»; «un'eco di oche appariscenti»; «un osservatorio sulla schiena del capodoglio»; «riconosci se la tigre che passeggia nel passato è reale»; «anche le oche non rinunciano alla migrazione che sembra un'epigrafe»; «l'assenza di serpenti non genera l'innocenza»; «la bocca delle bisce fiorì nel ghiaccio»; «da una colonia di ghiacciai la balena convocò una giungla»; «la sintonia aritmetica delle api»; giorni «stesi sul palmeto simili a pelli di tigri»; «abbraccia rapaci dal becco blu»; «annali di bronzo dove la volpe è un verbo elementare»; «cibiamo i falchi con le lingue dei primogeniti»; «nuvole formulate dai cervi»; «i cavalli sprigionano con un nitrito l'identità dei nativi»; «sul corpo di serpente dell'estate»; «il cuore dell'orca sterilizzato nel sorriso»; «ma l'airone non equivale al verbo»… e così via, tanto per esemplificare la slogatura delle immagini in cui Brullo eccelle. Siamo pur sempre in Antartide, e dunque fra i ghiacci, e le allusioni artiche arrecano iceberg ancora. Dunque gelo, algido silenzio, eppure, «decisi il ghiaccio per gustare / il giorno che ha l'intensità / di un millennio». E, sotto la coltre glaciale, un ricordo, se non un sentimento, familiare. Proprio nella prima delle trenta lasse del poemetto eponimo, davanti alla bara («solo la morte giustifica la vita») si assiste a questo stupefacente interrogativo: «e se il padre fosse un deltaplano?». E c'è una figlia, che muove «la lampada come un groviglio di battaglie», e di tanto in tanto appare un angelo, talvolta "eretico". Figlia e angelo protagonisti del secondo poemetto, in solo quattro lasse, intitolato L'angelo nel cortile. La figlia è bambina apofatica, asserisce: «L'unica libertà è nell'adorare», e anche: «Restituisci i desideri». Non ci sono indizi di salvazione che consentano il trapasso dall'ammirazione alla gioia, ma «una volta spiaggiato l'angelo è tuo / una trave ricoperta di specchi / che cospira lungo le infanzie». Però, «quando non c'è più nulla la poesia / salva» disse «come un battesimo o un incendio?». Tra acqua e fuoco, forse non c'è scelta.
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