Quando da
bambino mio padre mi mandava a comprare delle sigarette (che allora si vendevano sciolte, tre, cinque, anche una...) mi colpiva l'insegna dello spaccio in cui le trovavo, e di tutti gli spacci del paese: “Sali, tabacchi e chinino di Stato”. Ancora per diversi anni dopo la guerra l'insegna rimase, e peraltro la parola chinino evocava per me un proverbio che mi ripetevano mia madre e le nonne quando mi accadeva di cadere, di farmi male: «per i malati c'è la china, per i coglioni non c'è medicina»... Credetti per anni che il chinino venisse dalla Cina, che sui vecchi libri era chiamata ancora China, e invece no, ho saputo più tardi che il chinino veniva dall'America Latina ed era stato introdotto in Europa dai gesuiti, che si trattava dell'estratto di una pianta andina, la chinchona, di proprietà mediche e anche altre, se ancora oggi una dose minima di chinino viene usata nella produzione di bevande come il Martini Rosso o l'Aperol. In Italia il “chinino di Stato” fu una conquista sociale non indifferente, che nel 1895 strappò ai privati il monopolio dell'estratto. Una delle piaghe nazionali era nell'Ottocento, e lo fu fino al secondo dopoguerra, quella della malaria, diffusissima nelle zone paludose (soprattutto quelle del basso Lazio e della Campania) e nelle grandi pianure, anche la padana. Grazie al chinino di stato il numero dei morti di malaria diminuì della metà in pochissimi anni: da 16 mila nel 1895 a 7 mila nel 1905. Sono molti i politici e i medici (primo fra tutti Angelo Celli, su cui ricordo un bel libro di un grande “medico del lavoro” come Giovanni Berlinguer, fratello di Enrico) e gli educatori, primi fra tutti Giovanni Cena e la sua compagna Sibilla Aleramo, che ho conosciuto fugacemente e che mi sembrò una bellissima vecchia ancora viva di passioni. Per avere un'idea di come si viveva allora nelle paludi pontine, si può vedere il bel film di Genina Cielo sulla palude, sulla breve vita di Maria Goretti che vi nacque e crebbe e morì. A via Giulia a Roma, una chiesa ha incisa sulla facciata, ai lati dell'ingresso, la morte al lavoro nella campagna romana. Era la sede della confraternita che aveva come missione di trovare e seppellire i morti abbandonati nei campi, di malaria o morti ammazzati. Quell'immagine della morte ispirò Belli («la commaraccia de via Giulia / arza er rampino...») e la sceneggiatura che ne derivò Pasolini affidandola al giovanissimo Bernardo Bertolucci, all'esordio come regista. È una storia tremenda e però affascinante, quella della malaria (sconfitta definitivamente in Italia con l'arrivo del Ddt portato dagli americani nel '45), su cui mancano, mi pare, ricostruzioni adeguate e non solo specialistiche. Ci ho pensato in questi giorni, quando sono andato a farmi vaccinare anch'io, portato ai ricordi e ai confronti anche se le epidemie di oggi faticano assai a trovare i giusti rimedi, e non solo quelli medici, anche quelli sociali, politici, ecologici.
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