Da tempo alcuni mass media tradizionalisti di lingua francese parlano di grand ramplacement: la grande sostituzione. Quella che sarebbe in atto nel Continente europeo per rimpiazzare, appunto, la popolazione "indigena" con orde di immigrati da ogni parte del mondo, preferibilmente Africa e Stati islamici. Un fenomeno in corso da lungo tempo, secondo le stesse fonti, innescato e teleguidato da menti raffinate e malvagie, in un complotto teso a spazzare via la nostra antica civiltà. La più recente conferma la individuano nei risultati delle ultime elezioni comunali in Belgio, svoltesi il 14 ottobre scorso.
Accade infatti che, nella regione di Bruxelles, ben quattro dei 19 "municipi" in cui è suddivisa l'area della capitale sono stati conquistati da sindaci definiti con molto allarme di origine "extracomunitaria". La "denuncia" si fonda su basi alquanto esili, dal momento che tre di questi nuovi bourgmestre (uno in realtà è ancora da confermare) sono nati e cresciuti tra Vallonia e Fiandre e vantano già una notevole carriera politica.
In un caso siamo anzi di fronte a una rielezione, quella del sindaco socialista di Saint-Josse, Emir Kir, cinquantenne figlio di un minatore turco arrivato a Charleroi nei primi anni Sessanta. Kir fa politica almeno dal 2000 ed è stato più volte consigliere e assessore regionale, infine deputato nazionale dal 2010. A suo carico risulta, è vero, una lunga diatriba politica sul genocidio degli Armeni, che da buon figlio di turchi ha a lungo rifiutato di riconoscere, mettendosi anche contro il suo partito. Salvo poi votare anche lui nel 2015, centenario del "grande Male", la risoluzione parlamentare che lo commemorava.
Prole di immigrati marocchini è poi il nuovo primo cittadino di Koekelberg, Ahmed Laaouej, altra vecchia conoscenza della scena politica nazionale, attuale capogruppo socialista alla Camera federale, numero due del partito a Bruxelles e dal 2016 alla guida della commissione parlamentare sui "Panama papers". Non ancora scontata è invece la nomina a Evere di Ridouane Chahid, di genitore marocchini, assessore uscente e consigliere regionale, che attende la rinuncia del suo capolista, incompatibile in quanto Governatore della Regione brussellese.
La vicenda più singolare, che ha avuto la maggiore risonanza anche all'estero, è però quella di Pierre Company, 71enne congolese di Bukavu, rifugiato politico in Belgio dal 1975, ora assurto alla fama di primo sindaco nero del Paese, avendo vinto le elezioni a Ganshoren. A far suonare la grancassa dei media è stato soprattutto il fatto che le bourgmestre noir è padre di Vincent, il forte difensore centrale e capitano del Manchester City di Pep Guardiola, nonché da tempo nazionale dei "Diavoli rossi". È stato lui a segnalare al mondo il successo del padre, dicendosi ovviamente orgoglioso. Ma anche qui non siamo di fronte a un outsider piovuto dal cielo. L'onorevole Company, consigliere regionale dal 2014, nasce politicamente socialista, ma quando il partito gli nega il ruolo di capolista, passa armi e bagagli con gli "Umanisti" del CDH (i cristiano-sociali di una volta) e con loro sfonda. Più vecchia volpe che parvenu, insomma.
Morale della vicenda? Senza dubbio l'arrivo alla ribalta di nuovi protagonisti politici di origine extraeuropea è un segnale da meditare. Ma il loro successo è molto meno conseguenza di una strategia che logica evoluzione di un processo in corso da tempo, che per decenni l'Europa non ha voluto riconoscere. La storia dei popoli sperimenta una sorta di horror vacui, che spinge chi vive in terre avare e inospitali a cercare nuovi approdi dove sa di poterne trovare. D'altra parte, la prima denuncia del "suicidio demografico" dell'Europa risale all'11 ottobre di 33 anni fa, quando Giovanni Paolo II ne parlò ai vescovi del Vecchio Continente, lamentando l'abbandono silenzioso delle radici culturali e religiose comuni. Poi quella rinuncia fu sancita a Nizza e a Lisbona. Oggi raccogliamo frutti a lungo seminati da noi stessi.
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