Gli studenti di storia romana se lo ricordano bene, il 69 dopo Cristo. In poco più di un anno l'Impero passa di mano quattro volte. Morto Nerone, nel giugno del 68 gli subentra Galba, che a gennaio cede il posto a Otone, spodestato in aprile da Vitellio. Ogni successione avviene violentemente, fino a quando in dicembre, prende il potere Vespasiano, che lo manterrà per una decina d'anni. E gli altri tre? Restano nei manuali con il loro corredo di ritratti ufficiali, iscrizioni e monete, ma più che altro con lo statuto di comparse d'alto rango. Avanzano spediti verso la morte, ingenuamente persuasi che l'acclamazione imperiale sia l'inizio di un lungo regno. D'accordo, l'assassinio politico non gode più della reputazione di legittimità riconosciutagli dagli antichi (per quanto, a ben vedere, qualcuno disposto a fare eccezione ci sarebbe pure oggi). Ma l'illusione di confondere la fine con l'inizio non appartiene solo ai Cesari remoti o recenti. Colpisce quanti, inseguendo l'ostinazione del successo, si convincono che il meglio debba ancora venire. Così la pensavano Galba e Ottone e Vitellio, rimasti seduti per pochi mesi su un trono che non è mai stato il loro. Ma un trono, poi, appartiene veramente a qualcuno? Non sarà invece il potere a impossessarsi di chi lo pretende?
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