Uno dei più interessanti articoli culturali che negli ultimi tempi mi è capitato di leggere è comparso il 25 marzo sulla Lettura del Corriere. Lo hanno scritto Stefano Allovio e Adriano Favole: «La militanza radicale nuoce all'antropologia». Prendendo spunto da un libro curato per Donzelli da Fabio Dei e Caterina Di Pasquale, Stato, violenza e libertà, l'articolo apre la discussione su temi che meritano di essere considerati «ben al di là dei recinti accademici». Si tratta di due idee contrapposte, entrambe univoche e caricaturali, di che cos'è lo Stato: da un lato, lo Stato come padre buono e protettivo, dall'altro lo Stato “diabolico” come struttura repressiva, violenta e produttrice di disuguaglianze. Ma se la prima idea idillico-paternalistica dello Stato è stata da tempo smascherata, quella invece dello Stato come “impero del male” sopravvive e si è diffusa in forme teorico-filosofiche e politiche sofisticate, non facilmente criticabili perché formulate perlopiù in gerghi esoterici, tanto più suggestivi quanto più concettualmente sfuggenti: «Una sorta di scolastica che annovera, in un mix caotico, frammenti di Marx, letture “pop” di Michel Foucault, Jacques Derrida e Gilles Deleuze, citazioni di Giorgio Agamben, Gayatri Spivak, Toni Negri e altri cantori del sospetto radicale». Il punto è che nella loro idea di Stato diabolico ed esclusivamente, necessariamente repressivo, è coinvolta anche la cultura, intesa come «puro travestimento ideologico degli interessi di potere». Ma se così fosse, la cultura non sarebbe uno spazio distinto dallo Stato e dall'economia, non potrebbe essere un'arma critica e una difesa nei confronti dello Stato repressivo: il solo mezzo a disposizione sarebbe quindi la rivolta anticulturale e violenta. Insomma, violenza eversiva contro violenza repressiva, in un sinistro, corrusco scenario “sadomaso” che non permette mediazioni riflessive ma solo manganelli polizieschi da un lato e sassate contro la polizia dall'altro. Teorie che hanno già dato pessima prova di sé negli anni Sessanta e Settanta, quando Alberto Asor Rosa e Toni Negri teorizzavano che tutta la cultura era dentro il Capitale e la sola vera rivoluzione operaia doveva quindi essere fondata su un marxismo anticulturale distruttivo, puro istinto senza coscienza. Oggi queste teorizzazioni, in mancanza di classe operaia identificabile, si nutrono di ontologia heideggeriana, presentandosi come falsa mistica di un'alternativa indefinita a qualunque forma di socialità culturalizzata. Una pessima e poco scientifica antropologia, per una militanza politica che oscilla fra astrazione e violenza.
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