martedì 28 gennaio 2014
Milano, gennaio. Giornata di sole. A mezzogiorno, tredici gradi. Per strada la gente cammina con il cappotto slacciato, e nelle aiuole addirittura si affacciano germogli di un verde tenero, e fili d'erba nuova. Anche l'aria ha un odore diverso. A Milano d'inverno l'aria ha un fiato acre di polvere e scarichi, e invece questa porta in sé un indefinibile eco di qualcosa di vivo. Una bella giornata. Perché allora mentre cammino e vado annusando il vento leggero, registro in me una sottile inquietudine? Come se qualcosa non andasse per il suo verso. È che è soltanto il 23 di gennaio, e tredici gradi sono troppi. E quei germogli nelle aiuole, mi dico guardandoli severamente, non dovrebbero spuntare così incautamente. Finirete ghiacciati in una notte di brina, li rimprovero fra me.Perché ogni stagione ha i suoi tempi, e oggi qualcosa sembra forzato. Tredici gradi, figurarsi, prima ancora dei “giorni della merla”, dal 29 al 31 gennaio, tradizionalmente i più gelidi dell'inverno. Non dovrei essere contenta di questo tepore? Ma qualcuno al fondo di me è disorientato in certe sue antiche coordinate. Del resto, ancora la mia nonna paterna è nata contadina, sull'Appennino emiliano, e i ritmi e gli odori delle stagioni li conosceva a memoria. Due generazioni sono niente di fronte a questa memoria, a questa cognizione istintiva degli odori della terra, e dell'inclinazione della luce.Razionalmente possiamo avere dimenticato tutto, e non conoscere i nomi degli alberi, e dei venti; però al fondo di noi qualcosa di questa perduta sapienza è rimasto. Io ho in me qualcuno che sa che a gennaio deve esserci il gelo, e i passi al mattino spaccare le pozzanghere ghiacciate, che si rompono con un crac secco. So la nebbia, e il silenzio, nella neve che cade lenta; e i rami degli alberi secchi come ossa di vecchi, alzati al cielo in una nuda preghiera. So tutto questo senza che nessuno me lo abbia insegnato. E so anche che verso la fine di febbraio il sole, da pallido, ritrova vigore, e a marzo ritorna a farsi lama che taglia questo cielo padano. So il vento che spazza allora questo cielo, a cancellare ogni nebbia e torpore; e le gemme sui rami, gonfie, che una mattina si schiudono – chiamate da un silenzioso orologio. E allora, al suo tempo, l'odore nell'aria commuove, perché porta con sé come una promessa: il mondo rinasce, una volta ancora. Di modo che tutto deve, è bello che accada, al suo tempo: obbedendo la vita al suo nascosto maestro, che governa e scandisce i mesi e le ore.
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