sabato 19 marzo 2022
Se mai qualcuno avesse nutrito qualche dubbio, domenica scorsa all'Angelus, su a chi si riferisse Francesco con le parole «Dio è solo Dio della pace, non è Dio della guerra, e chi appoggia la violenza ne profana il nome», a fugare ogni dubbio ci ha pensato una nota di Vatican News: «Destinatari dell'appello papale non sono i fondamentalismi jihadisti, bensì chiunque pensa che possa esserci una "copertura" religiosa... per la guerra in Ucraina che vede cadere sotto le bombe cristiani che condividono lo stesso battesimo». Insomma, al centro dell'attenzione c'era il Patriarca di Mosca Kirill (e c'è da giurare che Bergoglio abbia ribadito il concetto nel corso della telefonata che ha avuto nel mercoledì successivo con il Patriarca), che in meno di una settimana per due volte è intervenuto per sostenere la guerra scatenata da Vladimir Putin. A sollecitare questi due interventi è stato (quasi) certamente lo stesso Putin, secondo il vecchio copione che ha sempre legato a filo doppio il Patriarcato a qualunque governo, dagli Zar a Stalin e oggi a Putin. Per dirla senza giri di parole, "io ti aiuto se tu mi appoggi". Non è un caso se il primo intervento del Patriarca è arrivato dopo più di una settimana dall'inizio della guerra. Putin, secondo fonti più che accreditate, era sicuro che in tre giorni la partita sarebbe stata chiusa, perché questo gli era stato assicurato dal Capo di Stato Maggiore. Non è andata come previsto, ed è ricorso alle stesse armi usate nel 1941 da Stalin per convincere i russi a proteggere il suo potere: il richiamo alla difesa della "patria" (Stalin per tutta la seconda guerra mondiale evitò di parlare di «trionfo del comunismo»), sfoderato dopo sei giorni dall'invasione, e la pressione sul Patriarcato (Alessio I arrivò a definire Stalin «inviato da Dio») per sostenere la sua politica. Che questo legame sì sia palesato con tanta evidenza in questo frangente è doppiamente significativo. Mosca ha sempre sofferto di un inguaribile complesso d'inferiorità rispetto a Kiev, la capitale della Rus', primo regno slavo quando Mosca non esisteva e Kiev si chiamava Kyiv. Spartita, frammentata, riunita fino alla conformazione odierna, l'Ucraina è stata sempre sottomessa all'orso russo. Fino alle crudeltà di Stalin, che con la collettivizzazione della prima metà degli anni Trenta provocò la morte di milioni di ucraini per fame e deportazione e nel dopoguerra fece pagare al prezzo di un'implacabile russificazione l'adesione di una piccolissima parte di ucraini alla Germania nazista (30mila arruolati nelle SS, poco più di centomila nell'Esercito Ucraino Libero) nel vano tentativo di cancellare la memoria della nazione. Il Patriarcato di Mosca ha sempre sofferto dello stesso complesso rispetto a Kiev, città a cui spetterebbe il titolo di "Patriarcato di tutte le Russie" in quanto lì fu il battesimo dei popoli slavi. Mosca non ha perso occasione di vessare Kiev, cominciando dal negare all'Ucraina la dignità di Patriarcato (avrebbe significato ammettere la propria subalternità) e arrivando a celebrare in grande pompa, nel 1988, il millenario del battesimo a Mosca e non a Kiev, come invece avrebbe dovuto. La cosa sollevò un sacco di proteste da parte anche della Chiesa ucraina in esilio, polemiche che coinvolsero pure la Santa Sede, una delegazione della quale, in testa l'allora segretario di Stato cardinale Agostino Casaroli, partecipò all'evento. Due anni dopo, mentre l'Urss iniziava a disintegrarsi, gli ortodossi ucraini, quasi contemporaneamente all'uscita dalle catacombe dei greco-cattolici, si separarono da Mosca proclamando la Chiesa autocefala, oggi maggioritaria, riconosciuta dal Patriarcato di Costantinopoli nel 2018.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI