Nelle riviste in cui ho lavorato ho sempre praticato e raccomandato, nei titoli, una grande parsimonia nell'uso dei punti interrogativi. La comunicazione tradizionale, da uno a molti, richiede anche ai mezzi d'opinione di saper essere affermativi, di dare al lettore l'impressione che il “suo” giornale, oltre a farsi delle domande, sia anche in grado di dare delle risposte (per quanto, evidentemente, non assolute ma aperte a critiche e revisioni). La comunicazione digitale, invece, prevalentemente orizzontale, da pari a pari, migliora a mio parere la propria qualità quando i post consistono in una domanda. Anche, e a maggior ragione, nel caso di dispute intraecclesiali o quando la Chiesa e i cristiani partecipano al dibattito pubblico. Magari scritta in grande, centrata e con un bel fondo colorato sotto. Lo dico avendo sott'occhio, nelle ultime ore, alcune conversazioni su Facebook sulle vexatae quaestiones del momento: le parole di papa Francesco al Forum delle associazioni familiari e quelle di cardinali e vescovi in tema di accoglienza di migranti e profughi. Pochi casi, si dirà, rispetto al prevalere delle affermazioni contrapposte. Ma incoraggianti. Naturalmente, la premessa è che siamo stati capaci di non chiuderci in “echo-chambers” sempre più ristrette, dove cioè interloquiamo solo con chi la pensa (quasi) esattamente come noi. Dopodiché, se la domanda è “sincera”, nel senso che chi la pone si sta davvero interrogando ed è realmente aperto ad ascoltare le opinioni degli altri, lo spazio per chi pensa di avere un contributo da dare c'è davvero tutto. Ma anche quando la domanda è, in tutto o in parte, retorica, ovvero quando chi la pone avrebbe anche la risposta, essa comunque consente agli interlocutori di diverso avviso di prendere la parola in forma costruttiva e non solo contrappositiva. Insomma, un post in forma di domanda è come dire agli altri “vi ascolto” e non “io la so più lunga”.
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