Piccolo libro nato occasionalmente dal lavoro editoriale, le Prefazioni a Shakespeare di Italo Calvino (a cura di Luca Baranelli e Tommaso Munari) appena pubblicate da Einaudi, si rivelano una lettura sorprendente e appassionante. Le ragioni vengono spiegate con molta chiarezza nella prefazione dei curatori; ma è poi una vera scoperta seguire passo dopo passo il cammino lungo il quale Calvino, lo scrittore amante delle fiabe e della leggerezza, incontra il grande classico da cui nasce la moderna letteratura occidentale. Maestro della prosa breve, che si tratti di racconto o di saggio critico, Calvino accompagnò con le sue introduzioni l'edizione einaudiana del teatro di Shakespeare apparsa dal 1949 in poi. Calvino non aveva ancora trent'anni, ma si sa che una delle sue più ammirate caratteristiche è stata fin dagli esordi la precoce saggezza di ventenne. Nel suo confronto con Shakespeare in effetti Calvino rivela una non comune maturità umana, morale e critica. Dietro la sua vocazione alla leggerezza c'è sempre stata una natura singolarmente malinconica, prudente, distaccata e meditativa. Le cose che in Shakespeare lo attraevano di più erano l'invito alla saggezza implicito nel fondo fiabesco degli intrecci e i tipi umani che ogni volta entrano in scena con i più vari personaggi. Il narratore affascinato dal fantastico e dalle simmetrie tipologiche, che Calvino resterà sempre, era incuriosito dal modo in cui i diversi individui tengono a bada il mondo, ne affrontano le insidie e il temibile potere di coinvolgere, dominare e distruggere la vita dei singoli, trasformando un'iniziale libertà e l'energia delle passioni in necessità, coazione e destino ineluttabile. È vero che la più vistosa lacuna nell'opera di Calvino è l'assenza, quasi la fobia del tragico, che in Shakespeare certo non manca. Ma Calvino teme il tragico perché lo immagina e lo capisce: lo tiene a distanza perché conosce sé stesso e i propri limiti di scrittore, che la critica ha quasi sempre deciso di ignorare. Tra queste prefazioni non troviamo quella ad Amleto e se ne sente la mancanza, essendo la tragedia di Amleto quella del personaggio shakespeariano più intellettuale, più filosofo, più letterato e artista. Ma forse, chissà, è possibile che Calvino abbia schivato e tenuto lontano da sé il tipo umano che per destino politico e antipolitico poteva turbare più da vicino il suo laborioso equilibrio di scrittore che vuole essere leggero nascondendo una malinconica misantropia, un pessimismo sociale e morale che suggerisce, in ogni caso, prudenza.
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