In un'antica cattedrale del Regno Unito, un venerabile Capitolo di canonici era intento a recitare l'Ufficio. D'un tratto scoppia un violento uragano. I fulmini e i tuoni si succedono sempre più rapidi. Un brivido corre fra gli stalli, e il decano del capitolo, assai scosso, fa segno con la mano e interpella i suoi fratelli: «Interrompiamo l'Ufficio, fratelli, per pregare un istante».
A raccontare questo apologo è il teologo francese Louis Bouyer, un pastore protestante che si convertì al cattolicesimo divenendo sacerdote della Congregazione dell'Oratorio, fondata da san Filippo Neri. La scenetta ben s'adatta anche a certe liturgie domenicali la cui atmosfera è subito palpabile: si è lì stancamente davanti a Dio, muovendo automaticamente le labbra, ascoltando distrattamente le letture e le preghiere. È il "dare a Dio quel che è
di Dio" nella stessa maniera con cui si versa a Cesare il fisco. Senza passione e adesione.
Se, invece, incombe una malattia o un esame o un colloquio di lavoro o una seria preoccupazione, allora sì che la preghiera si fa intensa e fremente. È naturale che così accada e Dio comprende e sorride, se è vero che ha lasciato che nel Salterio ben un terzo di tutte le preghiere là raccolte fossero solo lamenti e suppliche di favori. Ma perché non vivere di più l'esperienza libera e serena della lode pura? Perché non sostare più spesso celebrando Dio e ringraziandolo solo perché Lui esiste e noi esistiamo? Perché non conoscere il sapore intimo del silenzio e della contemplazione, del canto del cuore e dell'abbandono gioioso in Dio «come il bimbo svezzato in braccio a sua madre»?
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