Qualche giorno fa, passando davanti a un televisore, ho visto che si discuteva piuttosto animatamente di graffiti (urbani, non rupestri!). Da un lato le accuse di "fascismo" a chi imbratta barbaramente i muri altrui, dall'altro le difese o autodifese dei "rappresentanti" dei graffitari. Accuse eccessive: perché "fascismo" è categoria abusivamente generica ma anche storicamente precisa. Altrettanto inaccettabili le difese: secondo cui bisognerebbe, allora, definire fascista tutta l'arte moderna. Ma i graffiti non sono esattamente arte moderna. Sono un fenomeno sociologico e di costume che si nutre di luoghi comuni sull'arte moderna. Esprimono una pretesa di "creatività" che non crea niente, ma pretende di creare, allude al creare. Sono il fantasma ossessivo di una coazione alla creatività. I graffitari sono grafici potenziali in cerca di prima occupazione. I loro rappresentanti di categoria non mi sono sembrati, in tv, né ingenui né sprovveduti. Credo che troveranno lavoro prima degli altri.
Quello che mi ha sempre colpito nei graffiti è che: 1) sono anonimi e collettivi, 2) sono tutti uguali o troppo simili, 3) non significano, fingono una lingua enigmatica e aliena, 4) sono dovunque. In essi si manifesta soprattutto il desiderio di occupare spazio, ogni spazio vuoto e libero. Dunque: horror vacui. Sono inoltre il trionfo dell'ermetismo, dell'incomprensibile. Il trionfo di chi ripete: noi ci siamo e non abbiamo nessun senso, non sappiamo cosa dire ma vogliamo dire. Lo spazio pubblico non è di tutti, è di chi si prende la libertà di espandersi senza chiedere il permesso. I graffiti sono una forma di innocente ma aggressivo inquinamento culturale. Per ammissione degli stessi graffitari, sono il rovescio anarchico della pubblicità. La pubblicità la fanno i capitalisti, i graffiti li fanno i disoccupati. Ma tra loro c'è una strana somiglianza. Del resto, almeno da Andy Warhol in poi, molta arte moderna nasce da un' alleanza fra pubblicità e imbecillità.
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