Gli uomini veri fanno la differenza
mercoledì 3 giugno 2020
Marcus Thuram, Enes Kanter, Greg Popovich, Kareem Abdul-Jabbar, l'intera squadra di calcio del Liverpool: negli ultimi giorni questi sportivi (e tanti altri) si sono riappropriati del diritto di avere un pensiero politico, di esprimerlo e di spiegare da quale parte hanno deciso di stare. La parte dalla quale hanno deciso di stare è, evidentemente, la stessa di quella scesa (civilmente) in piazza per sostenere il movimento Black lives matter e manifestare contro l'assassinio di George Floyd. Sì, ho scritto "assassinio" senza troppi giri di parole, perché ho deciso di guardare tutti i nove minuti di video che circolano in rete e che mostrano l'agonia di un uomo che muore lentamente soffocato dal ginocchio di un poliziotto che gli schiaccia il collo e che, con aria strafottente, tiene una mano nella tasca della sua divisa. Quello è un assassinio. Punto.
Chi riesce a vedere completamente il video (attenzione, perché se deciderete di farlo, sarà come prendere volontariamente un violentissimo pugno nello stomaco) assiste a un'esecuzione, a una condanna a morte dove giudice e boia sono la stessa persona. Quegli sportivi, da cui ho voluto incominciare, hanno deciso di schierarsi, mettendo a disposizione la propria pubblica immagine per trasmettere un messaggio. La fotografia di Marcus Thuram, inginocchiato in uno stadio tedesco dopo aver segnato un gol, con sullo sfondo un orizzonte di cartonati che riproducono il pubblico che non c'è, è un'immagine piena di significati. Lilian Thuram, padre di Marcus, oltre a essere stato un grande calciatore diventato anche campione mondo con la sua Francia, ha scritto un bellissimo libro che si intitola: "Le mie stelle nere". È un'intelligente storia dell'umanità rivisitata rendendo omaggio a uomini e donne di colore che, quella storia, sono stati capaci di cambiarla. Suo figlio, il ventiduenne Marcus, nato a Parma negli anni in cui Lilian giocava nel campionato italiano, è diventato oggi una di quelle "stelle nere" perché quel suo inginocchiarsi, da solo, sul prato dello stadio del Borussia Mönchengladbach è uno dei gesti più potenti mai visti su un campo di calcio.
Apprezzo sempre la capacità di schierarsi (quella degli sportivi, come quella dei dentisti o dai giardinieri, non c'è differenza di qualità o di importanza, naturalmente), ma non ci sono dubbi che gli atleti, fin dai tempi dei pugni guantati di Tommie Smith e John Carlos sul podio olimpico di Città del Messico nel 1968, hanno la possibilità di far detonare il loro messaggio in ogni angolo del pianeta. In un momento come questo, con il mondo messo in ginocchio da una pandemia, con gli Stati Uniti in fiamme, con il planetario peso del lutto, del disastro economico, dell'incertezza sul futuro, con una clamorosa mancanza di leadership e di modelli esemplari e, paradossalmente, proprio nel momento in cui gli atleti sono privati del loro pubblico, lo sport ha la straordinaria occasione di dimostrarsi uno strumento di miglioramento del mondo. Quel ragazzo inginocchiato con la testa bassa, su un prato, circondato da migliaia di sagome inanimate che lo guardano dagli spalti, ci ricorda la differenza fra gli uomini veri e quelli di cartone.
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