Sono tanti i motivi per i quali non rivelerò il nome e cognome del protagonista di questa storia: non ultimo il fatto che i suoi post non sono visibili ai non "amici"; ma non credo che questa circostanza cambi di molto la realtà dei fatti. Scorrendo ieri, intorno all'ora di pranzo, gli ultimi post che Facebook, sulla base della selezione operata a mio uso e consumo dagli algoritmi, mi proponeva, mi è comparso per ventesimo (esclusi gli "sponsorizzati" e i "consigliati") quello di colui che chiamerò Mario Rossi.
Un amico digitale che definirei lontano: scorrendo i nomi dei pochi altri amici che abbiamo in comune, posso immaginare la catena che, un paio d'anni fa, ha portato lui a chiedere la mia amicizia e me ad accettarla, ma non ricordo altri contatti.
Tuttavia, questo suo post, datato tre giorni addietro, mi colpisce: accoratissimo, chiede la prossimità orante degli amici credenti e quella morale degli amici non credenti per la moglie, mentre viene sottoposta d'urgenza a un intervento chirurgico su un organo vitale. Non posso, con le mie parole, rendere efficacemente tutto ciò che quelle di Rossi, pur poche, trasmettono: amore e dolore di sposo, trepidazione, fiducia...
Mentre penso di unirmi alle preghiere e di comunicarglielo con un clic, mi viene spontaneo andare a consultare il suo profilo. Dove trovo tanti che gli si stanno facendo vicini mentre piange, con la stessa intensità e lo stesso amore e dolore di sposo, la moglie, che non è sopravvissuta neppure un giorno a quell'urgente intervento. Ancora, la prima cosa che mi viene da fare è rendermi prossimo alla sua dura prova. Ma la seconda è chiedermi per quale recondito motivo, a giudizio di un dispositivo che intende rappresentare una "rete sociale", dovrebbe essere più attraente, ai miei occhi di utente distratto, la richiesta di preghiera per una persona malata piuttosto che la condivisione del dolore per la stessa persona morta.
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