Il sole alto di una mattina di luglio in montagna ti arrossava la schiena bianca. Attorno l’estate trionfava, i prati dopo il primo taglio rifioriti, più sgargianti i fiori. Avevi sedici anni, la faccia ancora quasi infantile, ma eri ormai molto alto, un uomo. In calzoncini da atletica ti allenavi nel salto in alto. Dietro al fienile della casa delle nostre estati avevi piantato due pali, e teso un filo da bucato. Sotto, per terra, delle balle di fieno.
Avevi dieci anni più di me, eri il mio fratello grande. Da un angolo ti guardavo, zitta, ammirata. Rivedo l’istante in cui con le mani per terra, una gamba piegata, l’altra tesa all’indietro, gli occhi fissi sulla linea dell’ostacolo, scattavi. Tra balzi da leopardo con quelle gambe lunghissime, la forza dei tuoi muscoli che ti alzava, di schiena, in alto. Il filo teso restava immobile, tu ricadevi sul fieno morbido, in un tonfo. Subito ti levavi in piedi, e andavi ad alzare il filo: più in alto i tuoi sedici anni volevano saltare.
In quello stare acquattato a terra, concentrato nel raccogliere le forze, mi ricordavi certe foto intraviste sui tuoi libri di liceo, di discoboli antichi colti nell’attimo del massimo sforzo. Scolpiti in quell’istante, giovani per sempre.
Riformo quella tua faccia nella mia memoria, a combattere il viso pallido, scarnito degli ultimi tuoi giorni. Sei, ora, ne sono certa, ancora sul Pordoi sulla tua Legnano gialla, chino sui manubri curvi, sudato, felice. Il mio fratello grande, giovane per sempre.
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