Ho trascorso gli ultimi due giorni ospite della settima edizione di "Nuove reti, rinnovate professioni", corso per giornalisti organizzato dall'Ucsi Toscana. Quest'anno si ragiona de "Le periferie nella comunicazione digitale", e il mio contributo ha riguardato – chiedo scusa per il malcelato orgoglio – proprio questa rubrica e il suo navigare tra centri e periferie ecclesiali. Sollecitati da una domanda di Mauro Banchini alcuni interventi, in particolare quelli dei giuristi Emanuele Rossi e Leonardo Bianchi, fanno riferimento all'esigenza che un giornalista, quale che sia la modalità della sua presenza in Rete – compresi i profili personali sui social network – non venga meno alla deontologia professionale, o più in generale alla propria identità pubblica.
Nel mio caso spiego che il problema non si presenta, visto che sto su Facebook quasi esclusivamente per condividere con chiunque sia interessato le cose che scrivo per lavoro, anche se non mi dispiace quando qualche inevitabile sconfinamento nel privato – gioie o dolori – raccoglie tanta calda solidarietà digitale. Ma si possono fare altre scelte, e non per questo apparire sdoppiati in sé stessi. E può accadere che la firma di un giornalista che lavora "al centro", cioè su un grande mezzo, si arricchisca, agli occhi del lettore, a motivo di quanto apprende della sua sensibilità da ciò che scrive "perifericamente" sui social network.
È il caso di un collega di "Avvenire", Riccardo Maccioni. Con chi lo segue – un gruppo non numeroso, tale che, immagino, il sostantivo "amici" può fare a meno dell'aggettivo "digitali" – condivide riflessioni di intensa spiritualità. Nell'ultima, va a ribaltare una citazione dello scrittore Salvatore Mannuzzu, morto il 9 settembre scorso, a proposito della «scuola del dolore» e difende l'idea-illusione «che sia il "dolce" la migliore vitamina per crescere». Imbattersi in un suo post non è mai tempo perso, anzi: anche perché lo si legge tutto d'un fiato, e dopo ci si sente meglio.
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