La battuta migliore? Forse quella di Donald Bragg, americano, medaglia d'oro nel salto con l'asta a Roma 1960: «Quando mi dicono che c'è qualcosa nella vita oltre le Olimpiadi, rispondo: davvero?...». Loro che le fanno, le aspettano, le rincorrono, le accarezzano per quattro anni. Poi finalmente arrivano, di solito. Se non ci fosse stato il coronavirus, domani sarebbero iniziate le Olimpiadi a Tokyo. E sarebbero state belle, mai però come la storia di una vigilia. Perché le grandi gare è stupendo viverle, ed emoziona raccontarle. Ma la vigilia è molto di più. È l'attesa, il bisogno, la promessa della fatica, il gradino prima del tuffo nell'ignoto. Vale tutto la vigilia. Yasuhiro Yamashita, giapponese, un gigante d'uomo, vinse la medaglia d'oro ai Giochi di Los Angeles nel 1984 nello judo. Ma rischiò di arrivare tardi alla sua gara perché, disse, «dovevo mettere a posto la mia stanza al villaggio olimpico». Nella tradizione dei samurai infatti se un guerriero muore in battaglia e lascia la sua camera in disordine, su di lui cade il disonore. C'è sempre un prima nella vita, che va apparecchiato per bene. E chi deve gestire l'angoscia dell'attesa è comunque un privilegiato. È non aspettare niente che è terribile, finale, devastante. Chi può aspettare ed è capace di farlo, qualcosa ha già vinto. Sempre.
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