Si può dire grazie a uno scrittore dopo che il suo libro ci ha commosso, senza che il grazie sembri di maniera? Sfido la maniera e con tutto il cuore dico grazie a Fabio Geda che ha raccolto la storia vera di Enaiatollah Akbari, nel romanzo (sì un romanzo come la vita) Nel mare ci sono i coccodrilli (B.C.Dalai Editori, pp. 160, euro 16).
È la storia di un ragazzo di undici anni (circa: l'anagrafe è facoltativa, laggiù) che dalla madre è condotto in Pakistan e affidato ai trafficanti d'uomini, pur di scamparlo alla follia sanguinaria dei talebani che angariano gli hazara, etnia prevalente nella cittadina di Nava, a sud di Kabul.
La madre gli fa tre raccomandazioni mentre abbraccia il ragazzo che non sa che quella sarà l'ultima volta, chissà fin quando: non drogarti, non usare violenza, non rubare.
Con quel viatico ancestrale, affioramento dell'incancellabile legge naturale, Enaiat (questo il diminutivo) incomincia anni di peripezie, dal Pakistan all'Iran alla Turchia, alla Grecia e poi a Venezia, a Roma e finalmente a Torino, dove Geda (1972) vive e si occupa di disagio minorile e di animazione culturale.
Più tardi Enaiat comprenderà che «la speranza di una vita migliore è più forte di qualunque sentimento. Mia madre, ad esempio, ha deciso che sapermi in pericolo lontano da lei, ma in viaggio verso un futuro differente, era meglio che sapermi in pericolo vicino a lei, ma nel fango della paura di sempre».
Enaiat farà mille mestieri, dal venditore di paccottiglia allo sguattero al muratore, ma sempre con un profondo rispetto di sé, sempre con l'assillo di migliorare, perché sua madre gli aveva anche detto che non bisogna mai abbandonare gli sforzi per inseguire il proprio sogno. Più volte rimpatriato e altrettante di nuovo in viaggio, valicando montagne, stipato nel doppiofondo di un tir, attraversando un braccio di mare su un canotto con altri ragazzini ancor più piccoli di lui. Veniamo a conoscenza delle tacite leggi della tratta degli esseri umani («Per i primi quattro mesi il tuo salario lo incasserò io, poi sarà tuo», e così avviene), della solidarietà che tuttavia rende sopportabili i rapporti fra diseredati, dei legami di parentela o di etnia che sono tavole di salvezza nel naufragio di ogni altra risorsa. Un numero di telefono di un compaesano che sta a Torino sarà determinante per Enaiat, che proprio a Torino, dapprima affidatario in una famiglia accogliente, poi finalmente in regola con i documenti di asilo politico, potrà telefonare alla madre, dopo otto anni, scambiandosi singhiozzi più eloquenti delle parole.
In mezzo a tanto orrore, ci sono lampi di luce, di bontà: la nonna greca che rifocilla e riveste il ragazzo superando l'incomunicabilità linguistica; il ciclista che dà venti euro allo smarrito Enaiat, l'affetto della famiglia torinese.
Bisogna anche dire che almeno questa volta l'Italia fa bella figura, per la generosità nell'accoglienza: «Ho pensato a quelle due persone», riflette Eniat mentre Payam gli offre un cappuccino a Torino, «il ragazzo di Venezia e la signora del treno per Torino, che mi erano piaciute tantissimo, entrambe, tanto da desiderare di abitare nello stesso Pese in cui abitavano loro. Se tutti gli italiani sono così, ho pensato, mi sa che questo è un posto in cui potrei anche fermarmi».
Fabio Geda ha riportato il racconto di Enaiat con tale immediatezza che sembra di ascoltarlo dalla voce del protagonista: solo un vero scrittore è in grado di un simile exploit. Da questo romanzo si apprendono più cose sull'Afghanistan e sui disperati dell'immigrazione, che non dai libri di sociologia. Perché la letteratura vince sempre quando c'è da spiegare la vita.
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