Papa Francesco ha rilasciato ad Austen Ivereigh un’intervista tutta incentrata sulla pandemia da coronavirus. È rivolta al mondo anglofono, dove è uscita – sui siti di The Tablet ( bit.ly/2Xn3l1m ) e di Commonweal – l’8 aprile. Di là dell’Atlantico verrà sicuramente letta con grande interesse: lo stesso giorno il Pew Research Center ha fatto sapere, rilanciando una sua recentissima inchiesta d’opinione ( pewrsr.ch/3e9w6o7 ), che il Papa gode tuttora del favore di tre quarti degli americani. Non mancano lungo l’intervista – in italiano si può leggere sul sito de “La Civiltà Cattolica” ( bit.ly/2RiFvAb ) – i riferimenti alla vita digitale, brevi ma precisi. Prima Francesco fa un accenno neutro: anche nella Santa Sede, di questi tempi, «ciascuno lavora nel suo ufficio o da casa, con strumenti digitali». Più avanti ne fa invece uno guardingo sui rischi del restare a casa: «O ci deprimiamo, o ci alieniamo – per esempio, con mezzi di comunicazione che possono condurci a realtà di evasione dal momento presente –, oppure creiamo». Quanto invece all’utilizzo che gli uomini di Chiesa possono fare di alcuni strumenti, di fronte alla pandemia e ai vincoli che essa pone alle relazioni umane, la sua prospettiva è positiva: «La mia preoccupazione più grande – almeno, quella che avverto nella preghiera – è come accompagnare il popolo di Dio e stargli più vicino. Questo è il significato della Messa delle sette di mattina in live streaming, seguita da molti che si sentono accompagnati». Mi piace sottolineare quest’ultimo passo perché darà conforto ai tanti sacerdoti e vescovi che stanno moltiplicando in questa direzione i loro sforzi, come “Avvenire” e altri in Rete stanno ampiamente documentando. Provare – a maggior ragione in questi giorni del Triduo – a trasmettere nelle nostre case parole e preghiere, armeggiando con gli smartphone e i social network, è un modo di accompagnare il popolo di Dio, di stargli vicino: con espressione evangelica, di farsi a noi prossimi.
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