Francesco ha solo 18 anni, è uno dei più giovani malati di Covid in Italia. Una sera, il 2 marzo, gli salì la febbre, e non se ne voleva più andare. Era l'inizio del momento più buio, a Milano e nel Nord. Centinaia di casi in pochi giorni. Ma di Francesco e dei suoi 18 anni scrissero i giornali. E molti di quelli che lessero pensarono: mio Dio, appena gli anni di mio figlio, di mio nipote.
L'8 marzo il ragazzo è in condizioni gravissime, al San Raffaele viene intubato. I medici che, trascinati dall'urgenza di troppi pazienti gravi, corrono in corsia, gettano uno sguardo più addolorato su quell'adolescente. E anche loro forse pensano: mio Dio, l'età di mio figlio.
Il 23 marzo l'equipe di Terapia intensiva cardiochirurghica lo collega all'Ecmo, la macchina che "sostituisce" cuore e polmoni. Il virus ha infierito, su un ragazzo finora sanissimo. I polmoni sono rigidi come legno. Pare si possa solo arrendersi. Eppure, no. Rapide consultazioni fra ospedali, e al Policlinico si ipotizza un tentativo mai fatto in Italia, e solo due volte al mondo. Doppio trapianto di polmone: anche a noi ignoranti, l'espressione suona come un doppio salto mortale. Qualcosa al limite della temerarietà.
Com'è possibile, dentro a una strage con 30 mila morti, che si sia trovato il coraggio e la determinazione per un tentativo così estremo?
Forse proprio perché quel malato aveva ancora una faccia da bambino, di un figlio, e tutti lo avrebbero voluto vedere vivere. Forse perché era forte e giovanissimo, e c'era la possibilità che l'operazione riuscisse. Forse perché, ancora, proprio dentro la tragedia in Francesco si è intravista una speranza. Almeno lui, con i suoi diciott' anni, forse poteva farcela.
Salvare un uomo, in una sfida, nel nome di tutti quelli che si sono dovuti lasciare andare. Per quei medici un riscatto, un balsamo, dopo le ore più buie. Uno scacco alla morte.
Francesco, lentamente, migliora.
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