Chi, riferendo della nota della Presidenza Cei «Migranti, dalla paura all'accoglienza», ha inteso illustrarla con una foto, non poteva avere dubbi sull'immagine da pubblicare. E chi ne ha pubblicata un'altra lo ha fatto, evidentemente, per scelta. Anche se non ne fa il nome, infatti, lo sguardo che il breve documento evoca nelle prime righe ( tinyurl.com/yd5dvpuu ) è palesemente quello di Josefa, la donna camerunese salvata dall'ultimo naufragio nel Mediterraneo ad opera della nave Open Arms.
Le sue immagini – meglio sarebbe dire: i suoi occhi – si sono moltiplicati sui nostri tablet e smartphone e sono stati approfonditamente commentati: anche qui su "Avvenire", dove ne hanno scritto Raul Gabriel ( tinyurl.com/yalwuvbc'' target='_blank'>tinyurl.com/yalwuvbc' target='_blank'>https://tinyurl.com/yalwuvbc ) e Ferdinando Camon ( tinyurl.com/ya244h77 ). Sono cioè diventati un nuovo simbolo per chi, come appunto scrive la Presidenza delle Cei, sente verso «questo esercito di poveri» una responsabilità più grande di qualsiasi paura. Sottolineo tutto ciò perché mi pare che non ci siano molti precedenti, per lo meno a livello ecclesiale, di un documento istituzionale – perché di questo si tratta, non di qualche battuta dettata davanti a un gruppo di cronisti – che si arricchisce in virtù di un'immagine. E che il merito di tale arricchimento vada distribuito a metà tra i canali digitali, che hanno reso quell'immagine popolare, e la Presidenza Cei, che ha trovato il modo di giovarsene.
Non si è trattato di un giocare sull'emotività, come è stato osservato in chiave critica; si è trattato piuttosto di assumere la commozione che l'immagine di per sé ha suscitato – secondo il procedere tipico della comunicazione contemporanea – per convertirla in un ragionamento e in un insegnamento. Dubito che tale insegnamento avrebbe avuto la stessa forza se non avesse potuto, o voluto, richiamarsi ad alcuna immagine.
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