sabato 3 marzo 2018
Ci sono pochi dubbi sul fatto che, tra tutti i sacramenti, quello della riconciliazione sia il più “difficile” a cui accostarsi, e non a caso è il più “disertato” di tutti. Le ragioni sono mille, e di diversa natura, più o meno evidenti, più o meno intuitive. Ma, sicuramente, a nessuno sfugge quanto importante e delicato sia il ruolo del confessore, e quanto questa figura finisca con l'influire sulla possibilità, non remota, che quello che dovrebbe essere un momento fondamentale di intimità con Dio padre finisca con l'essere vissuto come una tortura.
Secondo uno studio di nove anni fa della Penitenzieria apostolica, il 30% dei fedeli non ritiene necessari i confessori, il 20% ha difficoltà a parlare dei propri peccati, mentre per il 10% i confessori rappresentano addirittura un impedimento al dialogo con Dio. Un punto, questo, che invece, come detto, è fondamentale, irrinunciabile. E non è un caso, dunque, che l'altro giorno, ancora una volta, papa Francesco sia tornato a ripetere quale debba essere l'approccio del confessore al penitente, ribadendo che il prete deve saper essere come «il papà di un adolescente che ha fatto una marachella»: se si presenta col bastone «non andrà bene, deve entrare con la fiducia»; perché egli non deve minacciare, ma «portare solo il perdono del Padre».
Diceva Giovanni Paolo II proprio ai membri della Penitenzieria apostolica, nell'udienza del 1993, che «il sacerdote confessore (…) mai deve pronunciare parole che suonino di condanna alla persona anziché al peccato, mai deve inculcare terrore anziché timore, mai deve indagare su aspetti della vita di penitente, la cui conoscenza non sia necessaria per la valutazione dei suoi atti, mai deve usare termini che ledano anche solo la finezza del sentimento». Un richiamo inequivocabile a quella delicatezza, a quella attenzione indispensabile verso la persona che si ha davanti, che non può essere né deve essere “giudicata” con in mano una sorta di prontuario, ma aiutata a riavvicinarsi al Dio misericordioso che vuole solo il bene dei suoi figli.
Un richiamo che Benedetto XVI, nelle istruzioni per i direttori spirituali pubblicate nel 2009 alla vigilia dell'apertura dell'anno sacerdotale, volle riassumere indicando in «prudenza, pazienza, saggezza e mitezza» le caratteristiche dei confessori. Se il confessore, si legge in quelle istruzioni, intravede che il penitente vorrebbe dire di più, ma non riesce, lo può aiutare con domande «ma con tatto e nel rispetto della privacy», e le penitenze devono «essere pertinenti al peccato e valutare la situazione del fedele... senza metterlo mai in difficoltà».
Il modello, ci ha ricordato quindi ancora una volta papa Bergoglio, è nel comportamento di Cristo quando chiama Zaccheo o Matteo, e l'intenzione deve essere quella di mostrare «come fare un passo in avanti nel cammino della conversione». Gesù infatti «non vuole bastonarci e condannarci. Ha dato la sua vita per noi e questa è la sua bontà. E sempre cerca il modo di arrivare al cuore». Per questo, allora, quando «nel posto del Signore, dobbiamo sentire le conversioni, anche noi [sacerdoti] dobbiamo avere questo atteggiamento di bontà». Per questo come Gesù i confessori devono saper dire: «Venite discutiamo, non c'è problema, il perdono c'è». E far sentire che «non [c'è] la minaccia, dall'inizio». Proprio come un padre; un padre con un figlio che pensa di essere grande mentre invece ancora non lo è: «Il Signore lo sa che tutti noi siamo a metà strada e tante volte abbiamo bisogno di questo, di sentire questa parola: “Ma vieni, non spaventarti, vieni. Il perdono c'è”". Sempre.
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