venerdì 20 gennaio 2012
Nel 2004 ho recensito un libro straordinario capitatomi sott'occhio per un titolo particolare: “Sognando Maldini”. Autrice una famosa scrittrice senegalese di lingua francese - Fatou Diome - non parlava di calcio se non per il desiderio d'Europa che nasceva fra i giovani di un piccolo villaggio del Senegal che come tanti coetanei del mondo correvano dietro a una palla. Ne ho conservato memoria perché mi ispirò alcuni articoli e interventi tivù al Mondiale di Germania che ci laureò campioni dopo avere battuto (anche) una squadra africana, il Ghana. E anche per queste indimenticabili parole di Fatou: «Essere ibrido, l'Africa e l'Europa si chiedono perplesse quale parte di me appartenga all'una o all'altra. Sono il bambino presentato alla spada di Salomone per un'equa spartizione... Sono la cicatrice spuntata là dove gli uomini, tracciando le frontiere, hanno ferito la terra di Dio...». Per me è sempre stato motivo di scandalizzato stupore il fatto che le miriadi di scrittori di calcio - moltissimi gli abusivi, come notava anche Brera - pronte a catoneggiare, a cedere al moralismo più vieto per antiche o recenti cialtronate di protagonisti del gioco più popolare del mondo, non abbiano mai denunciato quella forma di schiavismo del ventesimo secolo rappresentata dalla tratta dei calciatori africani in Europa. Già la tecnica d'ingaggio rivelava una sorta di colonialismo: allenatori avventurieri europei accorrevano alla guida della Nazionali africane, talvolta a quella di club professionali, per “scoprire” talenti da comprare a quattro soldi e rivendere in Inghilterra, in Spagna, in Italia, per non dire della Francia o dell'Olanda colonialiste, pronte a naturalizzare le loro prede. Alla periferia della civilissima Bologna fu addirittura scoperto un misero ricovero, un piccolo lager dove si occultavano ragazzini neri per un immondo mercato. Oggi, se Dio vuole, si assiste a un cambiamento fondamentale, e ne parlo alla vigilia della Coppa d'Africa che non è più una fiera/mercato ma una competizione rispettosa degli atleti, degli uomini, dello sport. Della dignità dell'Africa che vede partecipare al torneo anche l'orgogliosa, appassionata Libia appena sortita da una sanguinosa guerra fratricida. Sono sei i calciatori africani d'Italia partiti per Guinea e Gabon, Paesi ospitanti la Coppa. La Nazionale più rappresentata è il Ghana, con l'interista Muntari, il genoano Alhassan e i Due dell'Udinese (Asamoha e Badu); due i marocchini (kharja della Fiorentina e Benatia dell'Udinese). Grandi assenti dalla Coppa: Egitto, per problemi interni; Camerun, per dissidi di squadra espressi al massimo da Eto'o superstar, squalificato per cinque turni; e Nigeria, la Nazionale più forte a livello mondiale. Oggi gli africani d'Italia sono tutti ragazzi estranei all'antica tratta dei neri, spesso liberi di scegliersi anche un'altra patria calcistica, e non solo. Non sono più - salvo rari casi - oggetto di cronache curiose o di insolenze razziste. E soprattutto sono invocati, come Emmanuel Badu e Kwadwo Asamoha, senza i quali l'Udinese rischia di perdere il titolo di Signora Qualità.
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