Invece di sopirsi, le polemiche collegate al rimpatrio accelerato del capo della polizia giudiziaria libica Najeem Osema (detto Almasri), detenuto in esecuzione di un mandato di cattura della Corte penale internazionale per crimini gravissimi, stanno raggiungendo dimensioni impensabili e preoccupanti, finendo per coinvolgere nel più classico dei polveroni soggetti con status e responsabilità obiettivamente differenti (Governo italiano, giudici internazionali, magistrati nazionali), e rendendo molto difficile, per quella parte di opinione pubblica che non accetta di schierarsi a priori per gli uni o per gli altri, comprendere lo snodarsi della vicenda e i termini politici, etici e giuridici della questione.Per questa ragione, il primo messaggio che viene alla mente, rivolto soprattutto al ceto politico o a una parte di esso, è: fermatevi, respirate, sedetevi e, con pacatezza, fate il punto della questione. In discussione non vi è, infatti, un mezzo punto in più o in meno nei settimanali sondaggi di opinione, ma il senso stesso dello Stato di diritto: il potere politico è soggetto a regole giuridiche, la loro interpretazione è il frutto di un dialogo comune. Per fare il punto della questione, bisogna naturalmente muovere dal fatto politicamente rilevante: se c’è una ragione di Stato che ha ispirato il comportamento del nostro Governo, perché non dichiararla sin dall’inizio nelle forme che l’ordinamento prevede?Quanto è venuto dopo (intervento della Procura della Repubblica di Roma a seguito di esposto non inverosimile, deferimento degli atti al Tribunale dei ministri), non può diventare il nodo, a meno che non si voglia dare ragione a chi considera la polemica su questi punti una distrazione o un diversivo.
La normativa italiana sui reati ministeriali è apprezzata, anche all’estero, perché già bilancia la comune sottoposizione di tutti alla legge penale con la salvaguardia dell’interesse pubblico collegato alla funzione esercitata. Non c’è necessità di stracciarsi le vesti e, meno che mai, di chiedere il ritorno di antiche e improponibili immunità che finirebbero per essere privilegi.Il secondo messaggio, rivolto a tutti e non solo alla politica, è: esercitate il coordinamento e la leale cooperazione, anche con la Corte penale internazionale, non foss’altro che per rispetto del suo atto fondativo, che non a caso è noto in tutto il mondo come Statuto di Roma. La vicenda interseca, non sembra esservi ragione per dubitarne, la sicurezza nazionale. Ma allora perché non attivare, da subito, le sedi competenti, a cominciare dal Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica? Il nostro sistema costituzionale conosce una molteplicità di strumenti capaci di bilanciare le ragioni della trasparenza con quelle dell’interesse pubblico. Da qui il terzo messaggio: affidiamoci alla Costituzione, alla sua lettera e al suo spirito. A chi è incaricato di pubbliche funzioni, la Costituzione chiede di adempierle con disciplina (compresi dunque il rispetto per l’altrui funzione e la conoscenza delle regole e dei limiti della propria) e onore, da intendersi come disinteresse personale e dedizione al bene comune. Governanti senza lacci e lacciuoli non producono maggiore efficienza e stabilità, ma sono l’anticamera di avventure illiberali: la storia, anche recente, ce lo insegna. D’altronde, in uno Stato democratico-costituzionale, nessuno può pretendere di essere legibus solutus, neanche se unto o unta dal suffragio popolare, perché la stessa sovranità popolare va esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione: ovvio, si dirà, ma ricordare l’ovvio, in un tempo in cui il livello della discussione pubblica sembra ogni giorno inabissarsi sempre più, è quasi un dovere.

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