sabato 18 novembre 2017
Come sempre succede, ci sono molti modi di guardare a un qualsiasi evento. E la prima Giornata mondiale dei poveri, che si celebra domani, non sfugge a questa ferrea regola. Sicuramente, tuttavia, non si può liquidare questo appuntamento come una giornata “come ce ne sono tante”, magari anche troppe. Perché, a ben vedere, e papa Francesco lo riconosce in modo molto chiaro nel suo messaggio, si arriva a questa celebrazione con un percorso di Chiesa lunghissimo, a momenti anche travagliato, e che di certo non potrà accontentarsi dei gesti di un giorno e risolversi in essi. Perché siamo di fronte a quello che può considerarsi il momento in cui i cristiani, tutti i cristiani, sono chiamati a dare non solo un segno di attenzione e partecipazione, ma una vera e propria risposta, una risposta concreta, a quell'interrogativo espresso o inespresso che i papi continuano a ripeterci, da Paolo VI in poi.
Si tratta dell'interrogativo per eccellenza, la madre di tutte le domande. Che non è semplicemente «che cosa posso fare per gli altri?», ma, più radicalmente, «a che cosa sono pronto a rinunciare per il bene di tutti?». È la domanda posta da Papa Montini nel 1967 nella Populorum progressio, a partire da quella fulminante affermazione iniziale su «i popoli della fame che oggi interrogano in modo drammatico il popoli dell'opulenza». La stessa domanda che Giovanni Paolo II ha riproposto centinaia di volte dalla Laborem exercens alla Centesimus annus, e attraverso decine e decine di discorsi. E che Benedetto XVI, dopo averla ripresa nella sua Caritas in veritate, sintetizzò con inattaccabile rigore in un'intervista in aereo, volando nel 2011 a Madrid, ammonendo che l'economia non può essere lasciata alle autoregolamentazioni dei mercati, ma ha bisogno di una «ragione etica» che la fondi, «per funzionare per l'uomo». Che al centro di essa dev'esserci dunque l'uomo, e non la si può misurare secondo il principio del massimo profitto, ma in base «al bene di tutti». Cosa che implica «la responsabilità dell'altro», in tutte le sue dimensioni nazionali e sovrannazionali in quanto, per esempio, non è tollerabile ignorare chi, in altre parti del mondo, muore di sete e di fame e non ha futuro.
Nel ripercorrere questi 50 anni di magistero quel che colpisce – a parte la constatazione dell'impressionante lucidità nel prevedere le derive delle scelte economicistiche compiute negli ultimi decenni – è l'insistere sulla necessità di ripartire dall'uomo per rifondare l'esistere. Rifondarlo nell'armonia tra le persone e l'ambiente, tra pubblico e privato, tra nazionale e sovranazionale. Un'armonia senza la quale non c'è speranza, non c'è futuro, non ci sarà più vita e comunità, ma solo lotta sempre più brutale, sopraffazione e sopravvivenza.
È a questo, insomma, che bisogna guardare per riuscire davvero a rispondere alla domanda «a che cosa siamo pronti a rinunciare per il bene di tutti?». «Alla povertà – ci dice papa Francesco nel messaggio per la giornata di domani, rivolgendosi ai cristiani e a tutti gli uomini di buona volontà – che inibisce lo spirito di iniziativa di tanti giovani, impedendo loro di trovare un lavoro; alla povertà che anestetizza il senso di responsabilità inducendo a preferire la delega e la ricerca di favoritismi; alla povertà che avvelena i pozzi della partecipazione e restringe gli spazi della professionalità umiliando così il merito di chi lavora e produce; a tutto questo occorre rispondere con una nuova visione della vita e della società». Decidendo una buona volta non solo che cosa possiamo fare, ma a che cosa siamo pronti davvero a rinunciare e che cosa dobbiamo deciderci a cambiare per quel fine.
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