domenica 19 gennaio 2020
Fanno volontariato, conoscono il mondo, sono belli i nostri giovani; ma la loro generosità passa inosservata, il loro cosmopolitismo s'imparenta con l'esilio, la loro bellezza è pari alla loro fragilità. La laurea per noi era una promozione sociale, una garanzia di lavoro, una gratificazione contagiosa: sì, una polizza di assicurazione. Ci sentivamo parte viva di un Paese che cresceva, col vento che spingeva alle spalle e il futuro nel sangue. Famiglia, chiesa, società, partiti, ideologie era ancore morali e ideali: ci sentivamo accasati e protetti. A loro il vento soffia, forte, in faccia: l'incertezza del lavoro, l'assenza di bussole, la prospettiva di non raggiungere i traguardi dei padri li minano dentro. La famiglia fa sacrifici, il cittadino contribuisce, l'Università li forma, e poi li regaliamo agli altri Paesi. La laurea per loro non è un passaporto, ma un foglio di via. Il suicidio è perfetto: perdiamo capitale umano, capita, teste, e non braccia. E mentre esportiamo laureati, importiamo badanti. Può avere futuro un Paese che sottrae ai giovani i diritti prima ancora che le speranze e i sogni? Intanto loro, in una lenta secessione, fanno parte per loro stessi. E allora anche un selfie diventa un modo, volatile e solipsistico, per riconoscere e accertare la propria identità.
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