Qualche mese fa ho incontrato a San Patrignano - luogo di sofferenza e di riscatto - Gianmarco Moratti e sua moglie Letizia. Ho faticato a riconoscerlo, Gianmarco, in jeans e giubbetto, defilato dal gruppo di personaggi istituzionali presenti per un convegno ospitato nella comunità che i Moratti oggi gestiscono dopo averla assistita per decenni lavorando fra centinaia di ragazzi. Ricordavo un incontro di 50 anni prima, quando lui e Massimo si presentavano con papà Angelo tutti elegantini, incravattati e sorridenti, felici rampolli di una grande famiglia che si chiamava anche Inter. Visto e ascoltato il “nuovo” Gianmarco ho capito che la Beneamata non era più “dei” Moratti ma solo di Massimo, al vertice del club da un ventennio per alleviare a suon di euromilioni le pene di un popolo assetato di gol e vittorie, fino a quando l’inevitabile presa di coscienza di una crisi finanziaria pesantissima l’ha convinto a passare la mano al tycoon indonesiano Thohir - appena ribattezzato “il Filippino” da un suo esotico collega insediatosi al posto dei signori Garrone - che con l’Inter ha celebrato un matrimonio d’interesse in attesa che nasca anche l’amore. Via i Moratti, via i Mantovani, via drammaticamente i Tanzi e i Cragnotti, proprio come erano spariti i Lauro, i Mondadori, i Rizzoli, i Pontello, i Carraro, i Viola, i Matarrese, nel calcio italiano sopravvivono tre famiglie: gli Agnelli, inossidabili proprietari della Juventus più di quanto non lo siano oggi della Fiat; i Berlusconi, sposati al Milan per interesse (politico), imprenditorialità e vero amore; e i Pozzo, forse unici a rappresentare il mondo del pallone nella pienezza di un felice rapporto fra tecnica e sentimento, fra passione e bilancio, rappresentati da un uomo-bandiera, Totò Di Natale, che sembra uscito da una foto ingiallita dell’album di famiglia quando il calcio offriva cuore deamicisiano e muscoli guerrieri. Non sono un nostalgico, sennò soffrirei l’invasione di personaggi a dir poco folcloristici, protagonisti di film che non s’ispirano più al filone sordiano del Borgorosso Football Club ma ai cinepanettoni di Aurelio De Laurentiis, il presidente del Napoli tuttavia avvolto da un profumo d’aristocrazia. Il calcio non è mai stato promotore di bon ton e, anzi, ha assecondato una certa volgarità intrisa di maschilismo ed esibizionismo; ma oggi viaggiamo fra il pecoreccio e l’esotico, nuova formula adeguata alla disfatta della tradizione, all’ignoranza delle regole, alla tecnologia incafonita. Se ci pensate, la fotografia della Nuova Società. Lo disse Sartre - illuminando gli intellettuali compromessi col pallone - lo confermano ogni giorno le cronache televisive, cartacee e digitali: il calcio è pur sempre metafora della vita. Buon divertimento.
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