Mi prendo una licenza con una nota molto personale - e nostalgica - che mi permette di presentarvi un gran bel personaggio dimenticato. La sua telefonata mi ha raggiunto in auto, mentre guidavo (con auricolare) verso la Toscana. «Uei, sono Cina!».
Una voce croccante, non flebile ma un po' consumata, veniva dal tempo: lipperlì irriconoscibile. Cina. Uno che c'è stato per un mese, alle Olimpiadi, pensa a Pechino. «Cina?», dico io. «Uei, sono io, il Cina, scusa se ti chiamo ma ti leggo sempre su Avvenire e mi dico ogni settimana: adesso lo chiamo, chissà se si ricorda...».
Perbacco, il Cina... «Ma quanti anni hai, cento?», chiedo. Forse ho capito chi è. E lui: «Novanta». Cina Bonizzoni. Wikipedia se la cava in fretta: «Ex calciatore e allenatore di calcio. Ha allenato per due stagioni il Milan e vinto uno scudetto con
i rossoneri nel 1959; ha diretto varie squadre italiane (dal Brescia all'Atalanta, dal Mantova al Genoa), selezioni nazionali e Interlega, oltre ad essere stato il primo allenatore della Nazionale italiana cantanti. Ha collaborato con la testata giornalistica Avvenire e con il Guerin Sportivo, quando Gianni Brera ne era direttore. Scrisse anche molti libri tradotti in varie lingue sulla tecnica del calcio e le tattiche di gioco. Ha avuto alle sue dipendenze, da giocatori, ben quattro ct azzurri: ha fatto debuttare Dino Zoff e Giovanni Trapattoni e ha allenato Cesare Maldini e Ferruccio Valcareggi».
Ma ai suoi ordini nel Milan tricolore del '59 c'erano anche campioni del calibro di Nils Liedholm, il grande Pepe Schiaffino, un giovanissimo Altafini, in porta Buffon (Lorenzo, non Gigi).
Capito? In venti righe una storia che varrebbe un libro. Lui ne ha scritti, di libri, ma per raccontare - tecnica a parte - l'altro Cina Bonizzoni, un po' filosofo, un po' maestro di vita. E moralista. Nel senso buono. Profondo, religioso.
Mi fermo in un'area di parcheggio perché l'impegno del ricordo è forte. Da sbandare. Non solo una voce dal tempo, la sua solita risata serena e gorgogliante, ma immagini, tutte in movimento. Ci siamo persi trentott'anni fa, dopo la notte di Italia-Germania 4 a 3, quando tornai a Bologna. Eravamo all'ultimo piano del Palazzo dei Giornali, Milano, Piazza Duca d'Aosta 8b, redazione del Guerin Sportivo (al secondo piano c'era da poco Avvenire, fusione dei quotidiani L'Italia di Milano e L'Avvenire d'Italia di Bologna, e io stavo sempre insieme alla banda dei bolognesi, tutti con lo spirito solidale degli esiliati).
Il Cina era sempre con noi, ci riempiva di storie, notizie, ricordi, osservazioni tecniche, e solo dopo mesi avevo scoperto che aveva vinto uno scudetto con il Milan (spero che se ne ricordino, Berlusconi e Galliani, nel cinquantennio: Bonizzoni è storia). E adesso torniamo a raccontarci cose, come ieri. E lui mi parla come se io avessi i trent'anni d'allora, con una confidenza elegante, da maestro che ha piacere di ritrovare l'allievo che ha fatto strada e che gli piace leggere, oggi come ieri. Lui che in quelle quattro stanze di Piazza Duca d'Aosta aveva un vantaggio su tutti noi: stava spesso a chiacchierare con Gianni Brera, gli ricordava antiche cose, e Brera lo infilava spesso nell'Arcimatto chiamandolo "El Cine's"
per via di quel viso orientale con gli occhi a mandorla. «Che piacere, Cina!», continuo a dirgli fra un ricordo e l'altro. E lui: «Continua così, ragazzo, ti leggo e mi tieni agganciato ai bei tempi. Ben, adesso ti lascio, hai da fare, vai, ci risentiremo». Buon Natale, Cina.
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