L'ultima suora muore la sera del 28 maggio, festa dell'Ascensione. Nel mese del fiore che non appassisce, nel mese della Madonna. Anno 1995. Una violenta epidemia di febbre emorragica ebola aggredisce il Bandundu, provincia sud-occidentale dello Zaire, oggi Repubblica democratica del Congo. L'epicentro è nel capoluogo, Kikwit. La gente vomita e trasuda sangue, prima di spegnersi contorcendosi nei dolori. Dopo tre mesi di emergenza, si contano 244 morti, su 315 casi accertati. Tra le vittime, anche sei suore italiane, che si erano prodigate nell'assistenza ai contagiati e ai moribondi. Senza esitazioni, consapevoli del pericolo cui andavano incontro: suor Floralba Rondi, suor Clarangela Ghilardi, suor Danielangela Sorti, suor Dinarosa Belleri, suor Annelvira Ossoli e suor Vitarosa Zorza, missionarie della Congregazione delle poverelle di Bergamo. Per tutte, oggi, è in corso la causa di beatificazione. Muore anche una religiosa zairese, suor Eugenie Kabina, della Congregazione San Giuseppe di Torino.
Tutto comincia quando in un villaggio alle porte di Kikwit, un uomo, dopo giorni di febbre e sintomi sconosciuti, muore dissanguato per un male misterioso. È la "morte rossa". La stessa sorte tocca al figlio, poi al fratello e, a catena, ad altri componenti della famiglia. Nel giro di poche settimane, l'ospedale di Kikwit si riempie di persone con gli stessi sintomi.
Suor Floralba si contagia mentre è impegnata in sala operatoria, ed è la prima a soccombere, il 25 aprile. È sufficiente una sola goccia di sudore, raccolta con una carezza come gesto d'amore sulla fronte di un infettato per contaminarsi.
Di nuovo, oggi, nella Repubblica democratica del Congo (Rdc) è in corso un grave allarme ebola. C'è forte preoccupazione perché questa volta il virus, che già uccide, è entrato in una grande città, Mbandaka. Un allarme che interessa anche i Paesi dell'Africa orientale. Ebola è un virus di cui ancora si cerca di capire quale sia l'"animale serbatoio", cioè il portatore sano dell'agente patogeno – si sospettano le scimmie, i pipistrelli, i roditori, gli animali della foresta di cui la popolazione locale si nutre normalmente.
Kikwit. Ci volevano quasi tre giorni di camion su strade che non esistevano e che neppure si potevano chiamare piste per percorrere i 500 chilometri che la separavano dalla capitale Kinshasa. Un lungo viaggio, a bordo di un vecchio camion Iveco-Fiat con le ruote affogate nella sabbia e l'autista sciolto nel sudore a forza di innestare e togliere le marce più basse per non far slittare gli pneumatici e perdere la rincorsa. Piccole compagnie aeree promettevano collegamenti interni più veloci, ma conferme, orari e partenze erano impegni liberi come l'aria. E la sicurezza ancora più incerta. Ricordo che viaggiavo in un Paese del "non essere". Lo Zaire corrotto del maresciallo presidente Mobuto Sese Seko, all'epoca uno dei dieci uomini più ricchi del mondo, mentre al suo Paese non lasciava neanche le pezze per asciugarsi le lacrime. Tutto era a catafascio.
Sono passati ventitré anni, ma sembra che tutto sia accaduto pochi istanti fa. Ricordo che accanto alla cattedrale di mattoni rossi di Kikwit alte palme profilavano l'orizzonte proprio dove il sole tramontava, dedicando i suoi ultimi raggi dorati alle sei croci di legno della foresta, inchinandosi al ricordo terreno delle suore italiane morte nella consapevolezza del proprio sacrificio. Suore, fiori di un apostolato che non appassisce mai.
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