Se non esistono prove decisive dell'esistenza di Dio, meno ce ne sono della sua inesistenza, anche se si portano come prove di quest'ultima le sofferenze degli innocenti, dei bambini. Quelle che Umberto Veronesi tenta in tutti i modi di vincere anche distribuendo speranza. La fede, infatti – scriveva Dante – «è sustanzia di cose sperate ed argomento delle non parventi». Dunque se uno non spera e rifiuta le cose non parventi, può cadere nell'errore di non credere in Dio. Questo, infatti, è capitato al celebre oncologo, il quale, però, dimentica di mettere in causa se stesso, come vedremo. La Repubblica pubblica (lunedì 17) un estratto del suo più recente libro (Il mestiere di Uomo, Einaudi) in cui Veronesi narra «il giorno in cui ho smesso di credere in Dio». Certo, passare dagli orrori della guerra combattuta in prima linea – come a lui è capitato – agli strazi dei reparti di oncologia può essere un'esperienza disastrosa, ma potrebbe essere anche una prova che accanto al male fiorisce tanto bene. Al disperato racconto dell'oncologo sono seguite diverse repliche. Qualcuna acida: Mario Giordano su Libero (martedì 18) scrive: «Veronesi non crede in Dio perché vorrebbe esserlo lui […] il cancro prova solo che il medico non è Dio»). Altri fanno ricorso alla scienza, come Antonino Zichichi su Il Giornale (martedì 18): «Al Cern non è stato trovato niente in contrasto con l'esistenza del Creatore». Altri ancora si rifanno alla spiritualità ebraica: Morasháit, il portale dell'ebraismo italiano in rete, ripesca un articolo del rabbino David Gianfranco Di Segni pubblicato nel 2003 su Shalom, il giornale della comunità ebraica di Roma. Il rabbino tentava una risposta al tragico interrogativo “Dov'era Dio ad Auschwitz?” Poiché, però, il Talmud afferma che gli interrogativi sono più importanti delle risposte, ecco la domanda giusta: «Dov'era l'uomo?» Infine il teologo Vito Mancuso (la Repubblica, mercoledì 19) risale fino a Boezio (VI secolo) che scrisse: «Se c'è Dio da dove vengono i mali? E da dove vengono i mali se Dio non c'è?» Qui ricordo la risposta dello scrittore ebreo Elie Wiesel, quando, adolescente, era prigioniero ad Auschwitz: «Dio è sul patibolo a soffrire insieme con le vittime ». C'è, infine, un'ultima risposta, appena abbozzata in una lettera di due medici dell'Istituto Nazionale dei Tumori a Milano: «In tanti anni di vita assistiamo al miracolo quotidiano di come in circostanze estreme si possano trovare risorse, studio e buone cure in un ospedale pubblico». Cerco di completarla: professore Veronesi non si è mai chiesto se in quelle corsie e in quelle sale operatorie proprio lei possa essere, a sua insaputa, delegato da Dio a salvare quelle vite innocenti, a lenire quelle sofferenze, a tenere acceso per loro il lume della speranza o ad accompagnare con la sua caritas scientifica quelle povere creature alla soglia di un'altra vita? Quando impugna il bisturi si guardi alle spalle, forse c'è un angelo che le guida, oltre il cuore, le sue mani e la sua scienza…L'ADDOMESTICATOREPer Furio Colombo (Il Fatto, martedì 18) l'invito del Papa ai medici cattolici di confermare l'obiezione di coscienza per l'aborto e l'eutanasia è «un grave errore morale (abbandono dei deboli) e un invito al reato (astensione dai propri doveri)…». Insomma, «un gesto simil-santo introduce alla malavita sanitaria». Colombo ragiona alla rovescia: se il debole è la donna che abortisce, che dire del figlio ucciso? E se il debole è un malato, che dire di chi l'uccide? Alla Chiesa, scrive Colombo, importa solo «il potere di controllare la nascita e la morte per addomesticare alla fede». Colombo, invece, crede di avere il potere di addomesticare i suoi lettori.
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