L'accettazione di questo grande ospedale milanese, tutta nuova, somiglia a un aeroporto: tanti sportelli in fila, luci rosse e verdi, su un tabellone il numero del paziente chiamato. Come all'imbarco di un aeroporto, anche qui si parte, o almeno alcuni partono per un lungo viaggio. Un controllo del cuore, una biopsia, esami del sangue. Vedi, assorte nell'attesa, facce pallide. Li chiamano e vanno, ansiosi, nel reparto designato. Noi due, mio marito e io, ci inoltriamo in un lungo corridoio buio da cui scendiamo in un sotterraneo, scarsamente illuminato da una luce giallognola. Anche qui, in tanti in silenziosa attesa di una visita, di un'endoscopia, di una diagnosi. Il Covid sembra sul finire, ma quante altre gravi malattie rimangono. Il Covid declina, ma il cancro, la Sla, il Parkinson restano. Ogni tanto un frastuono di rotelle annuncia il passaggio di una barella con un paziente esanime, reduce dalla sala operatoria. Gli sguardi di tutti lo seguono. Pensano quello che pensiamo noi? E cioè che comunque, alla fine, si muore. In questa luce diaccia l'inevitabile pensiero, normalmente rimosso, appare disperante. Quasi fossimo, a un certo punto, vecchie macchine, avviate all'autodemolizione. Certo, se fossimo solo carne, sarebbe così. E così è, per chi non crede alla Resurrezione. Ma, e per noi che ci crediamo? "Per me vivere è Cristo, e morire un guadagno", diceva Paolo. Morire, un guadagno. Un tornare al Padre, alla vera nostra casa. Eppure anche fra noi raramente, davanti alla morte, si osa parlare della nostra speranza. Meno che mai, di gioia. In attesa in un sotterraneo livido d'ospedale, dopo tre mesi di epidemia, mi sono fatta una promessa. Di volere, quel giorno, una gran tavolata: dove gli amici mangino, e bevano vino buono, e sorridano. Certi che un'altra vita, infinita, è cominciata.
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