Nel mondo del digitale non bisogna mai sedersi sugli allori. E nemmeno dare troppo le cose per scontate. Tutto cambia e spesso molto velocemente. Se il 2021 era stato l’anno della voce, la fine del 2022 e l’inizio di questo 2023 stanno facendo emergere diversi problemi su questo fronte. Gli assistenti vocali sono entrati in crisi e l’unità di Amazon che include Alex ha registrato perdite per miliardi di dollari. Il popolare assistente vocale è sì entrato in milioni di case nel mondo, ma viene utilizzato dagli utenti soprattutto per chiedere informazioni e ascoltare musica: tutte azioni che producono pochissimi redditi per l’azienda. Anche il social ClubHouse, nato nel 2021 e incentrato inizialmente sulla voce, è entrato in crisi profonda. Secondo uno studio di Data.ai, a giugno 2022 aveva nel mondo 7,9 milioni di utenti attivi, rispetto ai 28,2 milioni del febbraio 2021 (in Italia sarebbero 90mila). E i podcast?
Loro sono un caso a parte. Come numero e qualità stanno crescendo ovunque, ma secondo l’agenzia economica Bloomberg «il boom dei podcast sembra appartenere al passato».
L’imprenditore Nick Hilton, podcaster, scrittore ed editore, è ancora più pessimista. Ha scritto un’analisi intitolandola: 2022, l’anno in cui il podcast è morto. Letta con i nostri occhi sembra un’assoluta esagerazione. Se prendiamo anche solo i dati italiani, il quadro che ne esce farebbe pensare esattamente al contrario. Cioè al fatto che i podcast siano più vivi che mai.
Secondo l’ultima indagine Ipsos sui podcast, «nel 2022 ben 11,1 milioni di italiani tra i 16 e i 60 anni li hanno ascoltati». Si tratta del 5% in più rispetto al 2021. Piacciono ai giovani (il 43% di chi li ascolta ha meno di 35 anni), ai laureati (sono il 30%) e ai professionisti (11%). Il 72% li ascolta attraverso lo smartphone e soprattutto a casa (il 73%). Seguono, sia pure a grande distanza, l’ascolto in macchina (28%), la fruizione sui mezzi di trasporto che è in aumento (22%) e l’ascolto in strada/camminando (21%). Quindi, le cose vanno non bene, ma benissimo.
E allora su cosa si basa l’analisi negativa di Bloomberg? Soprattutto su tre punti. Il primo è che il numero dei podcast è cresciuto a dismisura ma molto meno degli investimenti pubblicitari. Col risultato che i guadagni per chi li produce si sono ridotti anche del 50% e che colossi come Spotify e Amazon Music hanno sensibilmente ridotto i budget e le cifre dei contratti con i podcaster e gli editori. Il terzo motivo è che siccome l’offerta di titoli cresce vertiginosamente ogni giorno di più (nel primo trimestre del 2020 la sola Spotify aveva 1 milione di podcast sulla sua piattaforma, a settembre 2022 erano 4,7 milioni) un titolo fa sempre più fatica a farsi scoprire dal pubblico. In più, crescendo il numero dei concorrenti, diminuisce il numero medio degli ascoltatori e quindi le possibilità di guadagnare.In pratica, per avere successo, un podcast deve farsi notare, trovare un pubblico molto ampio o così motivato da pagare per ascoltarlo e poi riuscire a fidelizzare gli ascoltatori (cosa difficilissima). Il che spiega perché da noi si contano sulle dita della mano i podcast davvero di successo anche dal punto di vista commerciale. E perché le grandi aziende che li producono sempre più spesso decidono di investire su nuovi titoli solo se ci sono sponsor disposti a pagarli. Al punto che non è così raro che un autore si senta dire: la tua idea è molto bella ma o ce la cedi gratis oppure ti trovi uno sponsor.
Il successo dei podcast quindi c’è ed è notevole, ma soprattutto per chi li ascolta.
© riproduzione riservata
© Riproduzione riservata
ARGOMENTI: