C’è una sproporzione nel modo in cui la rivelazione natalizia ci viene presentata. Le Scritture dicono, per esempio, che il male sarà sradicato, che l’arsenale di guerra sarà archiviato, che ogni violenza si estinguerà come cenere, e che noi vedremo questo. “Ma in che modo?”, giustamente ci domandiamo. La risposta non potrebbe essere più sconcertante: «Perché un bambino è nato per noi. Ci è stato dato un figlio». Dio davvero agisce in modo sorprendente e paradossale. Conta sulla fragilità come forza, ci spiega che non si vince la violenza con la violenza, né l’oppressione con un’altra oppressione. È da qui che dobbiamo partire: da un neonato indifeso buttato su una mangiatoia. Per questo dobbiamo, credere di più nella potenzialità che ha la vita fragile, la vita nuda. Dio illumina e rilancia la vita nella sua condizione più piccola, la vita minima, la vita che soltanto nasce, la vita pura, senza ritocchi, senza ornamenti, la vita e niente più. La sfida sta nel credere nelle possibilità che questa vita innesca in noi. Il Natale ci lascia un presente tra le mani: ci affida un verbo per ogni giorno dell’anno. E questo verbo è “nascere”. Un avvenimento che normalmente situiamo al principio della vita e che pensiamo possa accadere un’unica volta. Ora, il Natale ci consegna il verbo nascere come un programma di vita, una mappa sempre da completare, sempre da rifare. Quel bambino che il Natale celebra dice a ciascuno: “E adesso nasci tu”.
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