L’infodemia da coronavirus continua a mettere la sordina a diversi argomenti, ovvero non li silenzia ma li fa sentire di meno. Tra essi merita di essere ricordato l’anniversario, che cadeva mercoledì 15, dell’incendio nella cattedrale parigina di Notre–Dame: un evento che vivemmo, a livello mondiale, con enorme intensità, certo perché inscritto, come l’epidemia di oggi, nella nostra storia millenaria. È ciò che lascia intendere un post su “Aleteia” ( bit.ly/3bgmJBg ), nel quale lo storico Patrick Sbalchiero, interpellato da Agnès Pinard Legry, riconnette i costruttori di cattedrali del Medioevo ai ricostruttori di oggi. Ciò che «ha dato a decine di migliaia di persone il desiderio di costruire cattedrali e di mantenerle in buono stato malgrado numerose catastrofi», dice, è stato il loro ruolo di «snodo centrale» e di «punto di riferimento primario nelle comunità umane». E anche oggi le cattedrali rappresentano «un ancoraggio nella memoria collettiva che nutre l’avvenire». Va ancora oltre questa visione il post dedicato alla ricostruzione della cattedrale da Isabelle de Gaulmyn, che tiene sul sito del quotidiano “La Croix” il blog “Una foi par semaine” ( bit.ly/2VF0dvA ). Accostando a Notre–Dame «privata della guglia» l’intera Chiesa «che non può né celebrare, né riunirsi, né seppellire», l’autrice sottolinea che ciò che conta di più è che «all’ombra di Notre Dame gli uomini e le donne della Chiesa, in silenzio, operino», concretamente, per tutti quelli che hanno bisogno. Come in questa crisi, nella quale sono stati capaci di mobilitarsi «a fianco e con tutti gli uomini di buona volontà», celebrando ugualmente, «ogni giorno, un Giovedì santo», una lavanda dei piedi. «Non siamo mai stati così fragili insieme», fragili come un’antica guglia. Per questo «la cattedrale sarà una cattedrale solo se troverà di nuovo la sua attenzione per i più poveri, per tutti i Quasimodo del nostro tempo».
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