mercoledì 21 maggio 2008
Gillo Dorfles: già nel nome c'è l'eleganza della sprezzatura, un calmo alitare di farfalla. Leggendarie, anche, le cravatte a farfalla di questo critico d'arte, già docente di estetica nelle università di Milano, Trieste e Cagliari, che, con la straordinaria disinvoltura dei suoi 98 anni, non manca all'inaugurazione di una mostra importante (quando non l'ha egli stesso promossa), a una prima teatrale. Milano l'ha festeggiato il 28 aprile scorso anche con la proiezione di un video nel quale Dorfles si racconta con misura e con grazia, testimone di un secolo che l'ha visto protagonista della scena artistica anche come teorizzatore del Mac, Movimento Arte Concreta, nato nel 1948 in contrapposizione sia al realismo politicamente impegnato sia all'irrazionale informale. Al Mac aderirono, fra agli altri, Fontana, Dorazio, Munari, Sottsass, Soldati, in nome di un'arte «basata soltanto sulla realizzazione e sull'oggettivazione delle intuizioni dell'artista, rese in concrete immagini di forma-colore, lontane da ogni significato simbolico, da ogni astrazione formale, e mirante a cogliere solo quei ritmi, quelle cadenze, quegli accordi, di cui è ricco il mondo dei colori».
Ma Dorfles è anche, da sempre, un attento osservatore del costume, e in un piccolo libro intitolato La (nuova) moda della moda (Costa & Nolan, pagine 144, euro 16,80) ha riunito e aggiornato alcuni articoli pubblicati negli anni sui giornali, intorno a un fenomeno meno precario di quanto sembri.
Perché lo «sconcertante settore» della moda, anche della moda vestimentaria, nasce dall'incontro di aspetti estetici con aspetti economici, e può diventare «uno dei parametri di confronto tra le arti durature e quelle effimere, tra la non arte commercializzata e l'arte ritenuta indipendente e sovrana».
Dorfles non ha l'originale levità di analisi di Roland Barthes il cui Sistema della moda (1970) resta insuperato testo di riferimento, ma si fa apprezzare per l'equilibrio con cui osserva il fenomeno-moda restando al passo coi tempi. Certo, abomina il piercing e i jeans sfilacciati, e a proposito dei costumi teatrali trova salutarmente detestabile «l'Amleto in smoking»; ma profetizza per l'immediato futuro la diversificazione tra «l'abito di tutti i giorni» e l'abito per circostanze speciali, da sera, da viaggio o da turismo, questi ultimi ispirati alla più sbrigliata fantasiosità. Nel quotidiano, invece, verranno imponendosi «abbigliamenti standardizzati, quanto più possibile funzionali, probabilmente di tipo unisex; e, ipotesi non difficile da proporre, provvisti di alcune segnalazioni (di grado, di professione, di indirizzo) che permettano l'immediato riconoscimento del livello professionale di chi le indossa».
I nostri pronipoti indosseranno dunque delle tute di tipo spaziale, con tanto di mostrine? Quello che Dorfles sostiene, comunque, è l'ineliminabilità dei segnali di appartenenza a un ceto che il vestiario dichiara. I nostri bisnonni ci appaiono rivestiti di abiti «estremamente cristallizzati e formalistici», così come i costumi tradizionali erano specifici per le nubili, per le spose, per le vedove e per chi era stato colpito da un lutto. In futuro, forse, l'abbigliamento sarà analogamente denotativo, come, del resto, già oggi avviene attraverso la gerarchizzazione delle marche dei jeans e la qualità delle lane dei pullover.
Agli eccessi dell'esibizionismo di minigonne e di nude-look Dorfles non oppone considerazioni moralistiche, ma le motivazioni del buon gusto. L'estetica, del resto, è stretta parente dell'etica.
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