sabato 18 marzo 2023
Giovedì scorso, 16 marzo, anniversario del rapimento di Aldo Moro e della strage di via Fani. Quel mattino di 45 anni or sono ero in treno per Modena su invito del rettore del Collegio Borromeo, don Ambrogio Valsecchi, teologo notissimo, per un incontro sul tema dell’aborto allora in discussione in Parlamento. Giunto a Modena trovai la piazza piena di gente: tutto annullato! Data indimenticabile, legata per me anche al ricordo di don Cesare Curioni, allora già cappellano a San Vittore da quasi 30 anni. Rispettato ed amato: quando ci furono proteste dei detenuti in vari locali la chiesa rimase sempre intatta. Con spiegazione: «lì c’è Don Cesare, guai a chi lo tocca!». Lui in mezzo agli ultimi, quegli ultimi, prete e uomo, sigaro in bocca, solido come un vecchio nostromo di mille tempeste. Era nato nel 1923 ad Asso, ai confini della Svizzera, ed è morto lì il 12 gennaio 1996. A metà anni ‘40 prete a Milano e dal febbraio 1948 cappellano a San Vittore con la fiducia piena del cardinale Schuster, poi di Giovanni Battista Montini. Sempre lì, ma in continuo contatto di vita con detenuti e agenti, sereno, pacato, prudente e coraggioso insieme, sigaro spesso tra le labbra, pacatamente saggio ed evangelicamente genuino. Di giorno e di notte, sempre con loro, sempre a pensare come migliorare le loro condizioni, amato, apprezzato, temuto da qualche potente e prepotente che voleva comandare anche nelle celle a scapito di altri…Il 17 dicembre 1966 il Comune di Milano gli dà la medaglia d’oro al merito. Intanto Montini è diventato Paolo VI, e nel 1976 lo vuole responsabile per l’assistenza religiosa in tutte le carceri d’Italia, Ispettore generale presso il Ministero di Grazia e giustizia, prima a via Arenula e poi a via Giulia, e a metà anni ’80 ottiene la Legge quadro per le cappellanie delle carceri, vigente fino ad oggi. Giovanni Paolo II approva poi la sua nomina a presidente della Commissione internazionale dei cappellani carcerari, ricordando in un celebre discorso del 1990 che essi sono nelle carceri per offrire «con il conforto dell’amicizia, la speranza cristiana che scaturisce dall’abbandono all’Amore infinito di Dio», accogliendo i detenuti al loro ingresso in carcere ed accompagnandoli poi – testuale – «anche nel loro effettivo reinserimento nella società»: misericordia, verità e giustizia debbono camminare insieme.
Ma che c’entra il 16 marzo? Durante la vicenda Moro Paolo VI lo incarica di cercare qualche strada per la liberazione, e lui le tenta tutte. A Torino durante il processo ai Br prigionieri incontra Curcio e Franceschini: a lui dicono che non c’entrano niente, anche se nell’aula gridano il contrario. Contatta organi internazionali, organizza una raccolta in vista di un riscatto in denaro e in una notte concorre a scrivere, al telefono con Paolo VI e alla presenza di Macchi, la prima stesura della famosa lettera agli “Uomini delle Brigate Rosse”…Tutto inutile, e dopo il 9 maggio fatale lui torna al suo lavoro girando le carceri di mezzo mondo. Silenzioso e riservato con tutti, fuorché con i carcerati e i confratelli cappellani. A giugno 1984 celebra, prudente e insieme generoso, un matrimonio “difficile”, noncurante di critiche e ammonizioni di uomini paurosi di ogni ombra, anche della propria. L’ultima presenza pubblica: il 22 marzo 1994 celebra i funerali a Saxa Rubra, in Rai, della povera Ilaria Alpi, giornalista del Tg3 uccisa in Somalia: amico di famiglia, aveva sposato i genitori e aveva battezzato la piccola Ilaria. Una sofferenza forte, per lui, quel giorno, riportata da tutti i giornali. Continua in silenzio il suo lavoro prezioso, fino al 12 gennaio 1996. In vacanza nella sua casa natale, ad Asso, tra Italia e Svizzera, il suo cuore si ferma senza disturbare nessuno. Ai funerali, tre giorni dopo, sale fino lì l’amico di sempre, monsignor Macchi, l’ombra fedele del suo Paolo VI. C’ero anche io. Memoria: don Cesare, uomo, prete, amico di tanti, ma a cominciare dagli ultimi… E non finire mai! © riproduzione riservata
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