In una Chiesa in cui le dispute su questioni dottrinali – alimentate anche attraverso i social media – si sono fatte esasperate, «fornendo uno spettacolo incompatibile coi criteri suggeriti dalla comunione ecclesiale, e rischiando di diffondere dubbi e sconcerto tra i fedeli», esce un vademecum che «ripropone in sintesi le verità e i criteri che devono sempre essere tenuti in conto da chi realizza interventi e partecipa a confronti» sulla Scrittura e sul magistero. In particolare, nell'Introduzione e nelle Direttive pastorali finali, esso contiene richiami a «non utilizzare i social media come strumento per fomentare polemiche e lanciare attacchi personali», che traduce nella richiesta «di non utilizzare i media e internet per realizzare interventi o coinvolgersi in discussioni di carattere teologico-dottrinale senza il consenso dei propri vescovi o dei propri superiori». La sorpresa sta nel fatto che questa Chiesa non è quella italiana, non è neppure in Europa e tantomeno in America, anche se l'analisi della situazione potrebbe farlo credere. È la Chiesa maronita, che sta in Libano; la firma del documento è quella del cardinale patriarca, Bechara Boutros Raï, mentre le frasi che ho riportato tra virgolette provengono da un articolo dell'agenzia Fides ( tinyurl.com/y94qroer ), ripreso da “Vatican Insider”. Tutto il mondo è paese, verrebbe da dire, a maggior ragione da che il web lo ha avvolto. Mentre lascio ai colleghi arabofoni la verifica sul campo dell'intensità del problema cui il documento si riferisce, mi chiedo però se l'estremo rimedio che esso dispone (quello che sottopone la partecipazione alle discussioni di carattere teologico-dottrinale al consenso dei superiori) abbia una qualche probabilità, nel mare anonimo e orizzontale della Rete, di funzionare. Se fosse ipotizzato qui in Occidente, risponderei sicuramente di no. E suggerirei, in alternativa, di rimboccarci tutti le maniche per prevenire – attraverso l'educazione, l'esempio e le nostre scelte – le derive.
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