Il libro biblico che più parla della felicità è anche uno dei meno allegri. Il libro del Qoelet (o Ecclesiaste), opera sapienziale dell’Antico Testamento, è conosciuto per il suo pessimismo fondamentale. «Tutto è vanità!», grida fin dalle prime righe. E, se tutto è vanità, la felicità non fa eccezione: «Io dicevo fra me: “Vieni, dunque, voglio metterti alla prova con la gioia. Gusta il piacere!”. Ma ecco, anche questo è vanità».
Qual è la felicità che si vede condannata in questo modo, senza appello? Il sapiente precisa che ha iniziato la sua indagine dalla concezione più comune, quella più evidente ai suoi occhi, la concezione della felicità che tutti cercano: bere e divertirsi. Il meno che si possa dire è che torna disilluso da quella felicità superficiale: i piaceri facili non gli hanno dato granché. Noi certamente questo lo sappiamo bene, eppure: come spiegarci che le felicità illusorie del consumo e dell’accumulo continuino a esercitare su di noi un tale fascino? Non può esserci vera ricerca della felicità che non parta da un rigoroso processo alla falsa felicità, il quale sveli le sue trappole e le sue comodità, con una paziente messa a nudo delle nostre autentiche ragioni dell’essere felici. Senza questa difficile messa alla prova, la nostra ricerca della felicità rischia solo di rivelarsi, col tempo, vanità e un correre dietro al vento.
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