Se debbo chiudere gli occhi senza sapere da dove vengo e dove vado, valeva la pena che li aprissi?
È stato solo negli ultimi anni della sua vita (morirà nel 2001) che io ho potuto frequentare Indro Montanelli. Anch'io allora abitavo a Milano e ci incontravamo nella sua casa, parlando a lungo, lasciando spazio soprattutto all'immenso bagaglio dei suoi ricordi. Spesso, però, il discorso scivolava verso il terreno più spinoso delle domande ultime, come quella che oggi propongo, traendola da un testo del famoso giornalista, ma anche dalla mia memoria di quei dialoghi. Con la lucidità tagliente che tutti gli riconoscevano, egli poneva in questo interrogativo il dramma dei suoi momenti di solitudine, di desolazione e persino di depressione.
Allora, e a maggior ragione in queste poche righe, non mi è certo possibile abbozzare una risposta, tenendo conto poi del fatto che l'umanità da sempre si è lasciata afferrare e scuotere da questa impietosa verità riguardante il senso della vita, elaborando infinite teorie. Vorrei solo affermare che forse la cosa più importante non è tanto trovare la risposta definitiva alla domanda (questa risposta dev'essere conquistata durante tutta la vita), quanto piuttosto lasciarla risuonare dentro noi stessi, non sotterrarla sotto cumuli di chiacchiere o annebbiarla nel godimento cieco o nella distrazione alienante. Ecco, allora, la necessità di un sobbalzo, di un fremito, di un sussulto interiore: che senso ha questo anno che sta svolgendosi davanti a me? «Tre sono gli eventi fondamentali dell'esistenza - scriveva Jean de la Bruyère, filosofo francese del Seicento -, cioè nascita, vita e morte. L'uomo non sa di nascere, muore soffrendo e purtroppo si dimentica di vivere».
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