Parole in libertà, in giorni senza libertà: chiusi per virus, non possiamo fare. Ma possiamo continuare a pensare…
Giorno 51
E’ un giorno di pensieri sparsi, di numeri primi e di secondi freddi. Apparecchio all’alba una colazione sospesa: chi verrà, vedrà. C’è già il sole, un anticipo pallido del giorno dentro il quale abbandonarmi e chiedermi cosa resterà di questo tempo d’attesa.
Gerald Brenan, uno che non conosco ma che mi pare ragioni benissimo, ha detto che siamo più vicini alle formiche che alle farfalle: pochissime persone possono sopportare molto tempo libero. Io che non ho le ali, dopo cinquanta giorni ho capito che posso vivere con meno, senza rinunciare troppo. Che non stringerò la mano a nessuno per chissà quanto. Che forse rimpiangerò la noia delle giornate passate anche ad annoiarmi. Ecco, forse: l’avverbio che diventa verbo, e precede tutto quello che mi sembra di avere davanti.
Primo maggio, scrivo lo stesso. Mai pensato che fosse un lavoro. Mi costruisce dentro, mi conserva i messaggi. Intanto leggo, elaboro cifre, ascolto Venditti. La matematica non sarà mai il mio mestiere: la macchina dell'emergenza coronavirus ha sfornato già 1.446 nuove nomine, 17 organismi nazionali, 16 task force, 19 unità di crisi regionali. Fa impressione. Ma intanto Amazon ha assunto 75mila persone e Walt Disney ne ha licenziate 43mila: vince l’utilità, perde la fantasia.
Imparo la lezione, guardo un video di De Masi: anche la sociologia non sarà mai il mio mestiere. Però il professore affascina, parla del futuro ragionando indietro. Ha pochi capelli, bianchi, ma manovra internet come un ragazzino. Agli studenti cita una frase scritta su un muro di Madrid: "No volveremos a la normalidad, porque la normalidad era el problema". Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema. Dipenderà da noi, dice, se andare avanti o tornare indietro. Nemmeno lui sa dove andremo. Io, per non sbagliare, intanto vado in cucina.
C’è ancora notte prima degli esami in sottofondo. Maturità, ti avessi preso prima… Una canzone persa. La loro notte prima degli esami sarà diversa, perché il giorno dopo sarà disperso. In presenza, si dice. In assenza di emozioni, credo. Volevano cambiare il mondo questi ragazzi, invece il mondo ha cambiato loro. A distanza lottano, ma un po’ si spengono, sopravvivono ma non vivono. Sono avanti, manipolano computer da prima di mettere i denti in bocca, ma nemmeno loro sono fatti per frequentarsi da uno schermo. Hanno bisogno della classe per contagiarsi la mente, l’abbraccio per crescere insieme. Questa scuola che rischia di durare così anche dopo, con le cuffie nelle orecchie e gli occhi sul video è un surrogato più amaro del mio caffè adesso: non fa scoprire, non fa capire che è importante diventare tecnologici, ma che è più importante restare per tutta la vita compagno di banco di qualcuno.
E’ già giorno intanto, un altro. La musica è cambiata, adesso canta Tozzi. Ti amo, e chiedo perdono. Primo maggio, su coraggio.